Il coraggio e la paura

La legge della montagna

di Michela Zucca

soccorso elicottero

"So che quando sto salvando qualcuno non posso rischiare oltre un tot perché altrimenti cade l'elicottero e in un colpo solo ne muoiono otto"….


ARKEOTREKKING: sui sentieri delle madri antiche | 5 - 7 agosto 2016


"Sull'Everets, io e 'Gnaro' abbiamo aiutato le guide spagnole perché avevamo ancora forze. Forse, altrimenti le avremmo abbandonate. Quando sei allo stremo e cerchi di aiutare qualcuno, di solito, si finisce per morire in due". Queste le parole di Marco Confortola, guida alpina, professionista del soccorso alpino e sopravvissuto alla tragedia sul K2 in cui nell'agosto del 2008 persero la vita 11 persone. Non è una questione di paura, né di coraggio: ma di necessità, di coscienza dei propri limiti. Chiunque ha paura: la paura è una reazione fisiologica a situazioni di stress. Ma la paura va affrontata: con l'assunzione di responsabilità verso se stessi - ammettendo i propri limiti - verso i compagni di sventura - impedendo loro di agire comportamenti ancora più devastanti anche verso la comunità di riferimento, che va sempre privilegiata rispetto al resto: il benessere collettivo viene comunque prima di quello individuale.

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Esistono - e io ne ho fatto e ancora ne faccio parte - ambiti in cui esiste un diverso pensiero condiviso. E dove certe cose si dicono ancora, anche se non si possono più dire apertamente con "quelli di fuori" perché sono tabù, quindi si dicono sottovoce o si passano sotto silenzio (ed eventualmente si fanno se ci si trova nella situazione). Parlo di una cultura alpina e di un particolare modo di vivere la montagna, il territorio, le risorse, la paura, e il coraggio di "passare" alcuni valori.
In questo tipo di mentalità, una persona è responsabile della sua vita e anche della vita degli altri, verso se stessa e verso la propria comunità. Che cosa vuol dire in termini spiccioli? Se tu sei in montagna in una situazione di emergenza e c’è qualcuno che ostacola il cammino degli altri, lo butti giù. Punto. Ricordo un mio compagno di giochi, ormai più di trent’anni fa, che si trovava in un alpeggio della provincia di Sondrio e stava facendo pascolare le mucche. L’erba che cresce presto nei pascoli d’alta quota è molto fine, scivolosa, e le nostre sono montagne ripide. Lui stava insieme ad un coetaneo quando scivolò nel precipizio. L'amico riuscì a prenderlo per i polsi. Quando si accorse che lo stava trascinando, mollò. E l'altro si sfracellò sulle rocce di sotto. Aveva solo vent'anni, come me e come il suo compagno: nessuno si meravigliò di quello che aveva fatto, eravamo stati educati così fin dall'infanzia, non eravamo supereroi o qualcos'altro. Anche noi avevamo paura: ma la paura si affronta. 
Morale: se ci deve essere un morto, meglio uno che due. Ancora oggi quando sento di alcuni incidenti in montagna in cui misteriosamente uno muore, chi sa capisce come mai.

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In molte società antiche esistono dei riti pubblici - che fra l’altro sono anche dei riti di passaggio all’età adulta, di iniziazione - che servono a dimostrare il coraggio e a far vedere che si riesce ad affrontare la paura. Cerimonie come queste servono anche ai giovani maschi per mettersi in evidenza di fronte alle giovani femmine. Nei valori che riguardano la preferenza sessuale per la scelta di un partner, il coraggio è una delle qualità preferite. Ci troviamo ovviamente in società in cui il pericolo è anche qualcosa di fisico, di immediato. Ricordiamo che solo da pochi decenni, e solo in certi ambiti, la maggior parte della gente vive in luoghi e in situazioni in cui il pericolo non è qualche cosa di istantaneo, inevitabile, da affrontare faccia a faccia subito, senza potersi perdere in ponderazioni e valutazioni. Per essere ancora più espliciti: adesso viviamo in un continente nel quale da cinquant’anni non si combattono più guerre, in cui da decenni la fame è sconfitta, non si deve più lottare per la sopravvivenza. Noi viviamo in un ambito politico in cui ci è permesso esprimere il dissenso. Non più tardi di cento anni fa, chi scioperava si trovava l’esercito davanti coi moschetti spianati. Bava Beccaris si prese una decorazione perché prese a cannonate la folla in piazza Duomo a Milano. Allora, la gente scendeva in piazza e affrontava la repressione molto più di oggi. Oggi che in realtà non si rischia niente, si ha molta più paura.

Chiunque fa il mestiere dello storico sa che qualsiasi cambiamento in qualunque società, compresa la nostra, si paga in morti. La democrazia europea è stata conquistata a suon di rivolte sanguinosissime che iniziano con la Rivoluzione inglese del '600 per poi proseguire con la Rivoluzione francese e, nell''800, una guerra di liberazione dietro l'altra, poi le due guerre mondiali e i conflitti anti coloniali. Il pacifismo di oggi ce lo possiamo permettere sui morti di ieri, violentemente uccisi nel corso di ribellioni non pacifiche e non democratiche.

Non solo: oggi le notizie devono essere precedute da forti battage mediatici per essere considerate dall'opinione pubblica, e nelle redazioni si sa bene che se non ci scappa il morto, nessuno ne parla. Anzi: più morti ci sono e meglio è. Chi avrebbe saputo cosa succedeva nelle banlieues parigine, se non si fossero messi a incendiare tutto? Da un punto di vista funzionale, è servito. Adesso quelli - a parte qualcuno che sarà finito dentro - hanno ricevuto i fondi. Come poi verranno usati, sarà un altro discorso. Però la violenza è servita.

Per fare questo tipo di azioni, naturalmente, ci vuole coraggio. Capacità di mettere in gioco la propria vita: o si è capaci, o no. Non siamo educati a rischiare la nostra incolumità. Siamo abituati a cercare di vivere il meglio possibile.
In altre società, chi è vigliacco (non chi ha paura: chi non vuole affrontare la paura, non l'ammette e scarica le conseguenze della propria paura su altri) viene escluso. Da noi no. Anzi, in certi casi questa "qualità" viene addirittura valorizzata: a scuola se due bambini fanno a botte e uno torna a casa con un graffio, i genitori denunciano la maestra. Nessuno più insegna ai bambini a combattere. Si fa finta che la violenza non esista. Quindi non li si educa né all’autodifesa, né (anche peggio) alla difesa del gruppo. Gli si dice: “Tu stanne fuori, per carità”. Questi sono i valori che noi passiamo mescolati, travestiti, verniciati di democraticità e pacifismo.

Aligi Sassu Martiri di Piazzale Loreto
Aligi Sassu, Martiri di Piazzale Loreto

Ma il coraggio è assunzione di responsabilità verso il gruppo dei pari. Questi sono i miei amici e compagni e io li difendo, nel bene e nel male. Purtroppo la valorizzazione del coraggio non è tipica delle società democratiche. In realtà, dal punto di vista antropologico, è tipico di società egualitarie. Che non vuol dire democratiche, perché nelle società egualitarie quel che conta è il gruppo; l’individuo serve solo in funzione del clan e da solo non ha valore.
Non più tardi di sessant’anni fa, se si osava esprimere qualcosa di diverso da ciò che veniva propagandato dal sistema, se andava bene si finiva al confino. Qui e ora, di che cosa si può veramente aver paura, se si esprime qualcosa di diverso? Il massimo che può succedere è di perdere il lavoro. In realtà, perdere il lavoro oggi è una cosa ridicola nella società dell’opulenza in cui tutti mangiano, rispetto ad altri ambiti in cui essere licenziati in tronco significava morire di fame con i propri figli - oltre alla violenza vera, fatta di pallottole, in caso di scioperi o dimostrazioni di piazza. Eppure, noi abbiamo paura, continuiamo ad avere paura.

fucile svizzero
Foto: Martin Rütschi (nzz.ch)

E il dissenso sociale, la resistenza democratica, ovvero ciò di cui c'è bisogno adesso, ha bisogno di gente che sa assumersi un minimo di rischio. Non si può pretendere che un potere (creato, anche nel caso fosse democratico, primariamente per conservare se stesso...) si arrenda senza colpo ferire… gli oppositori. Ricordiamo che, de facto, la resistenza non è un atto democratico, è sempre un'azione violenta. Chi resiste va contro la maggioranza e il potere. E questo non avviene, di solito, seguendo le regole del galateo, specie se si vuole che oltre che dimostrativo, l'atto sia anche efficace (almeno sul piano comunicativo).
A questo punto però è necessario sfatare un pregiudizio. Quello che afferma che chi possiede le armi, sa impiegare metodi di lotta violenta e all'occorrenza è anche capace di prendersi la responsabilità di uccidere il nemico, possa non riuscire più a controllarsi e rivolgerà l'aggressività verso chi gli sta vicino ed è indifeso.
Fra gli statunitensi esiste una grande diffusione del possesso casalingo di armi. D'altra parte, è cosa frequente negli Stati Uniti che qualcuno dia fuori di testa e ammazzi gente a gogo. Bisogna considerare però che in Svizzera, la diffusione di armi è ancora più capillare che negli Stati Uniti: tutti i maschi adulti hanno in casa almeno un fucile da guerra, perché tutti vanno a fare esercitazioni di tiro dai 20 ai 65 anni per circa 15 giorni all’anno. E, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, in Svizzera gli episodi di cattivo uso delle armi sono praticamente ridotti a zero. Guarda caso, la Svizzera è anche uno dei pochissimi Stati in cui - si tratta del regime repubblicano più longevo d’Europa - il Governo è espressione della fiducia dal basso. Questo non vuol dire che loro non siano abituati a livello di popolo ad avere coraggio.

5giornate Milano

 Il pacifismo è una creazione recente dei popoli ricchi. I popoli non possono permettersi di essere pacifici. È chiaro che nelle tecniche di costruzione di resistenza sociale non sempre la via - diciamo - violenta è la più conveniente. Per esempio, alcune fra le tecniche di resistenza sociale più efficaci adottate a Milano durante il Risorgimento non furono quelle insurrezionali. Forse qualcuno se lo ricorda perché gliel’hanno fatto studiare a scuola, oggi non si insegnano più queste cose... Fu il famoso sciopero del fumo, in cui la gente del Lombardo-Veneto, conscia che l’Austria rimanesse in questi territori perché, pur essendo un diciottesimo dell’impero, qui si versava un sesto delle tasse, facendo due calcoli scoprì che la maggior parte dei fondi che entravano nelle casse dell’Erario austro-ungarico provenivano dal fumo. E per mesi questi smisero di fumare. Il che non è da poco. Questa fu un’azione di resistenza sociale efficacissima e, diremmo oggi, non violenta, anche se le risse e le coltellate erano all’ordine del giorno.

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