La età della pietra dei popoli alpini…

Là dove il tempo si è fermato

di Michela Zucca

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Ogni cultura individua un elemento naturale prevalente in cui costruirà le proprie abitazioni, e con cui esprimerà il proprio concetto di bellezza e di benessere. Per i popoli a matrice celtica, questa sostanza è la pietra.

I sassi, ossa della terra, rappresentano la divinità, la Dea Madre arcaica. Mentre ad altri i massi possono fare paura, la nostra gente li cerca e li impiega nelle maniere più strane ma non per questo meno efficienti. In arco alpino per distinguere un accampamento romano da un insediamento celtico germanico, gli archeologi non hanno dubbi: in quello romano si trovano cocci di ceramica. In quello alpino, frammenti di ardesia: perché le tribù delle montagne usano la pietra per fare anche tazze e pentole. Rame e stagno si conoscono benissimo: ma si sceglie di cucinare 'alla piota'.
E così i sassi si fanno tetto, pareti, protezione… Oltre che, naturalmente, tombe.
Naturalmente, piacciono a tutti: quando si trova una bella pietra, la si raccoglie (facendo anche sforzi notevoli, usando trattore, bulldozer e caterpillar, facendosi prestare la macchina (se non ce l’abbiamo) e la si mette in giardino davanti a casa. Se si sta facendo una strada – molti degli uomini delle Alpi hanno lavorato e lavorano in cantiere – si piazza il macigno all’incrocio, in mezzo alla rotonda. O se si trovano tanti bei massi insieme, si mettono in tondo: si ripete il gesto arcaico del cromlech, il cerchio sacro.
Questa predilezione ha fatto parlare molti antropologi e storici de «età della pietra delle popolazioni alpine», «lungo Medio Evo delle Alpi», che arriverebbe – secondo loro – almeno fino al 1500: come se il tempo, fra le montagne, faticasse a scorrere, e la nostra gente fosse intrappolata in un’esistenza senza cambiamento, in cui gli anni i secoli e i millenni scorrono senza che la gente se ne accorga.
Perché in fin dei conti, i montanari sono i primitivi del Vecchio Continente. «Là dove il tempo si è fermato…» è diventato uno slogan turistico per gran parte dei villaggi alpini. Coi turisti che dalle metropoli affollate e invivibili fanno la coda sull’autostrada per arrivare agli ultimi scampoli di territorio rimasto 'intatto', in cerca di tradizioni 'sempre vive', delle tradizioni 'di una volta', delle relazioni 'che in città non ci sono più.

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Cromlech di Stonehenge

Tempo lineare e tempo ciclico

Per millenni, le comunità umane hanno basato la propria esistenza su una concezione di tempo ciclico. Tutto è già accaduto e prima o poi ogni cosa succederà di nuovo: “la vita è una ruota che gira”, “oggi a te domani a me”. L’universo ciclico, simboleggiato dal serpente cosmico che si morde la coda, viene espresso nella credenza della reincarnazione e nelle religioni metamorfiche sciamaniche. La natura è in trasformazione continua, qualunque oggetto è dotato di un’anima che può trasmigrare o trasformarsi, ma non bisogna preoccuparsi perché prima o poi quel che è stato tornerà. Il sapiente, lo sciamano, ma anche la persona attenta sa riconoscere i segni che precedono un mutamento e in qualche modo è in grado di predire il tempo che verrà.
Dal XVIII secolo comincia a diffondersi l’idea del progresso e la concezione del tempo cambia: dal tempo ciclico si passa a quello lineare. Si tratta del periodo della storia umana più prepotentemente segnato dal progresso scientifico. L’idea di un’evoluzione necessaria delle società umane precede largamente l’evoluzionismo in biologia. Gli Illuministi instaurano una nuova fede: quella nel progresso indefinito del genere umano guidato dalla luce della “ragione”. Ed è solamente nel secolo seguente che la teoria dell’evoluzione si impone in biologia, attraverso le ipotesi di Darwin e di Lamarck. Dall’osservazione della lotta per la sopravvivenza e della competizione fra specie animali per delle risorse naturali rare, si prende a prestito l’idea dalla zoologia e la si applica alla filosofia sociale e all’economia.
Da quando comincia il lavoro degli antropologi a metà del XIX secolo, i ricercatori si pongono immediatamente in una prospettiva evoluzionista. La nuova disciplina è 'inventata' da occidentali, che vivono in un’epoca in cui l’avvento della civiltà industriale assicura all’Europa metropolitana e al Nord America una superiorità tecnologica mai neppure concepita prima nel resto del mondo. Più ancora dei filosofi settecenteschi, sono convinti che lo sviluppo della civilizzazione e la crescita economica sono gli effetti inseparabili del progresso scientifico e tecnico, e che, di conseguenza, la loro civiltà è superiore ad ogni altra, e che il progresso è storicamente necessario.

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La civiltà occidentale e il modello di sviluppo prima capitalistico, poi socialista, sono ugualmente basati sulla fede nell’evoluzione umana, e quindi sul tempo lineare. Il progresso sacralizzato sostituisce agevolmente dio, o meglio, si fonde con la religione cristiana, unendo il regno dei cieli alla promessa di un futuro liberato dall’ignoranza, dal bisogno e dalle costrizioni politiche, imponendo il dovere della diffusione del Verbo (capitalista o rivoluzionario, poco importa: si agisce “per il bene dell’umanità”).
La cultura e l’ideologia ottocentesca, su cui si fondano i due sistemi economici che hanno conquistato il mondo, e che il mondo ci invidia, il capitalismo e il socialismo, è ancora ben viva a livello di sentimento popolare, pone i presupposti per la ricostruzione dell’ultimo dopoguerra e per il boom degli anni ’60, che, di fatto, distruggerà gran parte delle civiltà contadine europee. Anche se sul piano intellettuale diversi pensatori hanno cercato di far emergere le sue contraddizioni, e, probabilmente, sul piano intellettuale ci sono perfino riusciti, in realtà è, a tutt’oggi, il substrato di percezione e la forma mentale che sta dietro alle nostre azioni e soprattutto alle nostre aspirazioni. Non si può rinunciare all’idea di sperare in un progresso infinito, che comunque risolverà ogni problema con la tecnologia; non si può evitare di sognare di stare sempre meglio, di avere sempre più cose, di lavorare sempre meno… e se l’evidenza storica afferma che si può anche “tornare indietro”, che per molte popolazioni il peggioramento delle condizioni di vita è un dato di fatto quotidiano, recente e improvviso, allora, si cerca di negare l’evidenza. E si ribadisce che, “in realtà”, è perché in un determinato continente c’è la guerra, o esistono altre motivazioni contingenti, esterne, che hanno “bloccato il progresso”.

La tecnologia come prova di progresso

È solo in rapporto ai criteri dell’Occidente dell’800 che si misura il “ritardo temporale” delle società che sono fuori dal modello di sviluppo basato sull’abolizione dei cicli e ricicli storici e sul trionfo del tempo lineare, uguale per tutti. Prima o poi necessariamente qualunque cultura dovrà attraversare le stesse fasi e svilupparsi nello stesso modo: perché “i tempi si evolvono”. La prova storica “eclatante” dell’evoluzione storica che avremmo raggiunto è costituito dal progresso tecnico e tecnologico, prima ancora che scientifico.
In poche parole: molte altre civiltà hanno raggiunto livelli simili ai nostri, e magari superiori dati i tempi, di conoscenza scientifica: vedi gli astrologi egiziani e sudamericani, i chimici cinesi, e così via. Ma gli scienziati antichi non hanno saputo applicare le loro scoperte, non hanno saputo distinguere il sapere tecnico-scientifico dalle altre forme di sapere. Noi invece sì. E questo ha portato ad un indubitabile miglioramento delle condizioni materiali (e poi, di conseguenza, anche mentali) di vita. Il prezzo pagato è stato la rivoluzione industriale e il degrado ambientale: ma valeva la pena perdere qualche milione di operai nelle miniere e nelle fabbriche per avere quello di cui oggi possiamo disporre. Quanto all’inquinamento, le statistiche sulle aspettative medie di vita parlano chiaro: dove la natura è incontaminata, si vive la metà. Quindi, malgrado l’elevato tasso di malattie degenerative dovute al peggioramento dell’ambiente, ma anche e soprattutto alla vecchiaia, il “progresso della medicina“ (inteso ancora una volta in senso tecnologico) ha saputo porre un ottimo rimedio.

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Il paradigma dell’evoluzione infinita

La caratteristica principale del progresso tecnologico è di essere inarrestabile. Anche gli eventi catastrofici, come le guerre, non riescono a frenarlo: anzi, in realtà, sono essi stessi occasioni di progresso. Non solo: l’evoluzione è infinita, e porta, anche attraverso canali non percepibili ai più, ad un miglioramento continuo delle condizioni di vita. Fornirà una soluzione futura a ciò che al momento sembra irrisolvibile. Qualsiasi limite è negativo, irrazionale, perché va “contro il progresso”. Il pericolo maggiore, lo spauracchio che giustifica i costi dell’innovazione, è il timore di “tornare indietro nel tempo”. Minaccia che ancora oggi è contrapposta a chi pretenderebbe un diverso tipo di sviluppo (vedi il “popolo di Seattle” e le proteste contro la globalizzazione).
Questa ideologia si accorda perfettamente con il cristianesimo, cattolico e protestante, che vede la fine dei tempi come l’instaurarsi dell’Eden o del Paradiso in terra. Anche se l’eterna beatitudine per i giusti (e solo per loro) arriverà alla fine di un’ecatombe, ciò fa parte dell’imperscrutabilità dei disegni divini, e non si può mai prevedere quando e come.

Il primitivo antenato dell’europeo civile: i montanari primitivi d’Europa

Il termine “primitivo” trionferà nel XIX secolo, mentre oggi si preferisce parlare di ”sottosviluppato”, o, quando si parla di montanari, usare la locuzione “rimasti indietro al tempo che fu”. L’indigeno delle società extraeuropee non è più il selvaggio tanto caro ai filosofi del secolo dei lumi, è diventato il primitivo, cioè l’antenato dell’uomo civile, obbligato, prima o poi, per legge naturale, ad evolversi, ad “andare avanti” e a raggiungerlo. Per questo l’antropologia, scienza che studia i primitivi, è indissolubilmente legata alla conoscenza delle nostre origini, ovvero alle forme “semplici” di organizzazione sociale.
Praticamente, viene ipotizzata l’esistenza di una specie umana identica, ma che si sviluppa (tanto nelle sue forme tecno-economiche che sociali e culturali) su tempi ineguali, secondo le popolazioni, o secondo i luoghi, seguendo però le stesse tappe, per raggiungere il livello finale, che è quello della “civilizzazione” e dello “sviluppo tecnologico”. Per questo motivo bisogna impegnarsi a mettere scientificamente in evidenza, e a spiegare in modo progressivo, tutti gli anelli della catena del progresso umano che si sgranano in un tempo definito, se non nella quantità, nella qualità. Da cui l’identificazione – assolutamente accettata senza il minimo dubbio tanto dalla prima generazione di marxisti che dai fondatori della psicanalisi – dei popoli primitivi, così come dei popoli alpini, come residui dell’infanzia dell’umanità.

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Ma il tempo corre sotto ai piedi degli studiosi. All’inizio del XX secolo, l’antropologia era appena riuscita a mettere a punto i suoi metodi specifici, ed a conquistarsi la dignità scientifica; quando gli intellettuali bianchi si accorgono che l’oggetto empirico che avevano eletto come materia di studio (le società “primitive”) era in via di rapida estinzione: l’universo dei “selvaggi” non veniva risparmiato dall’evoluzione sociale legata alla diffusione dei modelli occidentali, che, per di più, era inarrestabile.
A questo punto, gli antropologi partono alla ricerca di un altro ambito di indagine: il contadino, specialmente montanaro, primariamente alpino, selvaggio dell’interno (rispetto alle città, che, invece, sono rivolte verso l’esterno, la comunicazione, il cambiamento), conservatore, tradizionalista, poco comunicativo, che, si pensa, ha conservato il suo mondo quasi intatto se non dall’età della pietra come i boscimani e i pigmei, certo da tempo immemorabile. La distanza che separa un universitario di origine e cultura urbana da un montanaro alpino, da un bracciante dell’Estremadura, o da un pastore sardo, non è molto minore da quella che lo può dividere da un trobriandese. Spesso non si parla neanche la stessa lingua: perché il contadino si esprime in dialetto, oppure, addirittura, il ricercatore viene da un’altra nazione.
La ricerca etnografica il cui oggetto di studio appartiene alla stessa società che quella dell’osservatore fu spesso identificata come folklore. Fu Van Gennep che elaborò magistralmente i metodi specifici di questo settore di analisi, impegnandosi ad esplorare esclusivamente, ma in maniera magistrale, le tradizioni popolari contadine, le differenze sociali e culturali che dividono le comunità studiate dall’etnologo, che sostituiscono le distanze geografiche dell’antropologia “esotica”.
E proprio in questo settore è cominciata, da qualche decennio, la riappropriazione delle storie e delle conoscenze, raccolti dagli etnologi nella prima metà del XX secolo da parte di quelle popolazioni che, a suo tempo, furono oggetto di ricerca. Nozioni rielaborate da chi, in quella cultura contadina, ora appena scomparsa, trova ancora le proprie radici, e vuole utilizzarle per ricostruirsi un’identità che gli restituisca diritto di cittadinanza piena in una civiltà che l’ha confinato ai gradini più bassi della scala sociale. Basti pensare ai movimenti per il riconoscimento di culture e lingue minoritarie, non prive di forti implicazioni politiche anche in Europa occidentale.

Popoli fuori e popoli dentro la storia

Nella percezione comune, le società possono essere divise, grosso modo, in due grandi blocchi: quelle che mantengono delle tradizioni rassicuranti, statiche, e quelle che si lanciano nell’avventura imprevedibile del “progresso”. Quelle che hanno paura del nuovo e quelle che hanno fatto dell’innovazione un valore in se stesso, giustificato al di là della morale. Quelle che stanno fuori dalla storia, e quelle che, invece, sono interne ai processi di evoluzione storica, e li determinano.
Ecco alcuni dei pregiudizi che distinguono i due tipi di uomini. Le culture tradizionali sono società “semplici”: ovvero non sono dotate di tecnologie particolarmente sviluppate. A ben guardare, però, si scopre che valorizzano ben altre cose, che hanno raggiunto livelli di complessità impensabili in Occidente: i sistemi di parentela, le credenze religiose. E poi si vede anche che il metodo di sfruttamento dell’ambiente che hanno adottato riesce a cavar fuori dalla natura il massimo delle risorse con il minimo di dispendio energetico. Quindi è più progredito del nostro. Altro preconcetto: sono senza storia. A parte il giudizio ideologico evoluzionista tardo ottocentesco che relega certi popoli ad uno stadio inferiore dello sviluppo del genere umano, col perfezionamento delle conoscenze linguistiche si è capito che presso di loro la memoria, più che essere “fissata” con la parola scritta, è “tramandata” attraverso il discorso orale, ma è comunque registrata; non solo: costituisce patrimonio collettivo, condiviso: da noi invece, fino a pochi decenni fa, la “storia” costituiva un sapienza spartita fra pochissime persone, che appartenevano ai ceti alti e alle classi colte: gli altri non avevano nessuna idea di ciò che era successo nei tempi andati, o meglio, si affidavano ai mezzi orali, e ricordavano ciò che a loro interessava di più. Cioè si comportavano esattamente come i “primitivi”.

caribbean 1911021 512Allora, quanto c’è di vero in questa divisione, e quanto, invece, è sovrastrutturale, creazione di una cultura dominante che rivendica a se stessa il ruolo di giudice soltanto perché ha vinto, e può permetterselo? In realtà, non ci sono popoli che rimangono esterni ai movimenti di trasformazione che investono il pianeta; non c’è civiltà che non abbia paura di modificarsi, e che non tenti di evitarlo se può; non si trovano comunità prive di tradizioni, di legami forti col proprio passato. Eppure, indubbiamente, una differenza esiste. Ma è molto più sottile, stratificata, complessa di quanto si crede; ogni caso, ogni gruppo umano, è differente: non è possibile generalizzare. Le cause dell’elasticità mentale che conduce all’adattamento rapido a condizioni che cambiano, o la resistenza fino al suicidio culturale, non possono essere le stesse per gli aborigeni australiani e per gli inuit canadesi. O meglio: alcune sono commensurabili e confrontabili fra loro; altre sono specifiche.
In realtà non esistono culture che rimangono “ferme nel tempo”. Ma, e qui cominciano le difficoltà, i cambiamenti, dentro certe comunità, hanno bisogno di essere legittimati attraverso un riferimento al passato, mentre altri si realizzano tramite una trasformazione incosciente dei comportamenti collettivi. Fra i gruppi che vivono in un ambiente “tradizionale”, la vita comunitaria è dominante rispetto all’individuo, quindi diminuisce l’efficacia della presa di coscienza della persona sulla possibilità di intervento attivo per modificare la situazione reale che si sta vivendo: e questo avviene anche in contesti nei quali la libertà personale effettiva è maggiore delle società che valorizzano l’iniziativa privata. Per esempio: in gran parte delle Alpi, il matrimonio avveniva quando la sposa era già incinta; e nessuno si scandalizzava, se un comportamento contro la morale, quando diventava evidente per la gravidanza, veniva legalizzato. Ciò vuol dire che i costumi sessuali praticati erano più liberi che fra la borghesia urbana, anche se in ogni caso la trasgressione ideologica, o la devianza, venivano punite con l’esclusione sociale. Ciò non toglie che politicamente spesso i ceti rurali alpini si siano espressi in maniera conservatrice, opponendosi ad innovazioni come il divorzio e all’aborto, al contrario delle classi medie metropolitane del nord Italia, il cui voto ha determinato l’adozione di quelle leggi, e quindi la trasformazione sociale.

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La differenza fra i due tipi di civiltà non sta nei fatti, si vede nelle dichiarazioni di principio: quelle arcaiche manifestano il desiderio di restare fedeli alle tradizioni del gruppo, piuttosto che la volontà di adottare mezzi nuovi per sviluppare l’organizzazione sociale e l’economia. L’iniziativa del singolo è penalizzata nelle prime, sanzionata negativamente come bisogno di distinguersi e di mettersi in mostra, di emergere a spese degli altri; nelle seconde, è premiata socialmente, considerata segno di creatività e di genio.
È una questione di valori: anche quando si verifica effettivamente un’innovazione, le società della tradizione devono giustificarsi richiamandosi a ciò che hanno fatto gli antenati, i “vecchi”, mettendo in moto dei meccanismi che riducono al minimo la destabilizzazione indotta dalle novità, mentre le società moderne, anche se rigettano il cambiamento, lo rappresentano come un qualcosa di positivo in sé e per sé. È un’attitudine mistica più che un atteggiamento razionale, fondato sull’ideologia escatologica cristiana, per la quale la storia deve necessariamente finire con l’avvento del regno divino, con la beatitudine eterna; e anche i fatti che non si riescono a spiegare partecipano al disegno imperscrutabile di Dio, che porterà al trionfo del bene e del progresso per tutti gli uomini. Prima o poi. Alla fine dei tempi.

 

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