Ricchezza e disuguaglianze

Lo scandalo delle differenze

di Michela Zucca - SECONDA PARTE

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Le società alpine sono apparentemente molto più egualitarie di altre: quando esistono differenze di ricchezza, queste vanno accuratamente nascoste per evitare maldicenze.

Il mercato globale e la concentrazione della ricchezza

Dalla caduta del muro di Berlino, al collasso del sistema socialista, il mercato è diventato globale: distrutte le frontiere, anche l’economia è profondamente cambiata. L’accento si è spostato dalla produzione delle merci alla circolazione dei beni, che viene ostacolata solo da ragioni di convenienza. Lo sviluppo del sistema dei trasporti di oggetti materiali, via terra, acqua, aria, ma anche di oggetti immateriali, attraverso reti telematiche che trasferiscono capitali e informazioni in tempo reale, hanno fatto il resto. Questa trasformazione coinvolge circa un miliardo di persone: gli altri cinque per ora sono stati toccati solo marginalmente. Si può paragonarla, per quanto riguarda l’evoluzione della mentalità, a ciò che è successo con l’emergere del mercato. Prima della sua nascita, l’economia, sotto forme diverse a seconda del retroterra culturale di riferimento, si trovava comunque 'incastrata' nell’organizzazione sociopolitica. Con la creazione del mercato, l’economia è stata liberata dalla politica nazionale, è stata istituzionalizzata in maniera indipendente. La sua relativa autonomia ha permesso all’economia liberale di considerare il mercato quasi come un fatto di natura, dotato di leggi indipendenti che, per ragioni quasi trascendenti dalla volontà umana (le regole della domanda e dell’offerta, della rarità dei beni, la libera concorrenza, e via dicendo) dovevano essere rispettate. Il mercato tende ad essere giustificato e imposto come un qualche cosa che sta fuori dal contesto storico, culturale e, soprattutto, etico. Le richieste del mercato diventano il fondamento che serve per costruire un sistema internazionale di scambi, che si autoalimenta e avanza rivendicazioni di indipendenza.

cassaforte 640Lo stesso meccanismo, su scala più allargata, supportato da elementi diversi che non siamo ancora in grado di individuare, perché siamo immersi in un processo in corso, sta avvenendo adesso, con l’apertura dei mercati globali. L’impresa si svincola sempre più dai confini dello stato-nazione, che tende ad essere svuotato di significato in rapporto ai movimenti economici. Ma le differenze, sociali e culturali, e ancora di più di ricchezza, rimangono: anzi, talvolta aumentano. Anche perché alla globalizzazione si è accompagnata la delocalizzazione produttiva, che ha provocato la deindustrializzazione di aree a forte tradizione industriale nel Nord del mondo (vedi le cinture operaie milanesi e torinesi, per esempio) e la costruzione di impianti industriali a tecnologia avanzata in regioni in cui si sopravviveva attraverso l’agricoltura di sussistenza, non esisteva né la mentalità del lavoro di fabbrica, continuativo e ripetitivo, né manodopera formata né associazioni di lavoratori in grado di difendersi dallo sfruttamento. Ciò ha causato fenomeni di privazione dell’identità (pensiamo alla catena di suicidi dopo i licenziamenti Fiat), esempi di capitalismo selvaggio di rapina, sfruttamento indiscriminato, spopolamento delle campagne e abbandono dell’agricoltura, migrazioni di masse impoverite… e un aumento della ricchezza impensabile per una minoranza sempre più ridotta di persone.

 

Consumo ergo sum

Dal punto di vista non solo economico, ma anche antropologico, le cose che si comprano, che si usano, che si esibiscono e che, alla fine, si consumano, costituiscono il segno distintivo di una condizione sociale, di uno status acquisito; assumono un valore altamente simbolico, oltre alla valutazione monetaria: e questo succede in qualsiasi cultura. Non solo in quella occidentale, in cui lo sviluppo della produzione industriale di serie ha moltiplicato in maniera impensabile le possibilità di scelta, la pubblicità le ha amplificate e comunicate al grande pubblico, la rete dei trasporti ha materializzato gli oggetti del desiderio e ce li ha portati in casa. Consumo ergo sum sembra essere una regola generale.

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Di solito, le abitudini di consumo e le mode si impongono dall’alto in basso. O meglio: partono dai componenti di classi che devono affermarsi, che si trovano nella necessità di ribadire un’ascesa sociale che è avvenuta da poco, che vogliono essere riconosciuti da chi, al contrario di loro, appartiene a quelle che Thorstein Veblen, economista statunitense testimone del trionfo del big business negli anni ‘20 del XX secolo, chiama le gerarchie assolute: quei ceti che godono di titoli e ricchezze tali, da talmente tanto tempo, da essere al riparo da qualsiasi critica. Ragion per cui possono consumare effettivamente quello che vogliono, senza darsi pensiero del giudizio di chicchessia: danno spettacolo raramente, preferiscono impiegare il denaro per beni durevoli e non appariscenti, che esibiscono quasi esclusivamente quando si ritrovano fra di loro: praticano l’understatement, considerano addirittura poco raffinato chi mette in mostra una ricchezza guadagnata col lavoro. Gli altri, invece, devono dimostrare, a se stessi e a chi li circonda, di essere entrati fra i vip: e devono far vedere a tutti che sono diventati ricchi, e che possono permettersi certi tipi di consumi. Da qui l’ostentazione e lo spreco di beni di certi gruppi sociali, specialmente in occasione di cerimonie pubbliche. Non mancano, però, casi in cui si verifica l’effetto contrario: vedi la diffusione mondiale dei jeans, che, da capo di abbigliamento da lavoro, si trasformano in costosissimi pantaloni griffati; o le 'mode di strada', diffuse specialmente fra i giovani (o fra chi vuole apparire tale), i quali, all’identità di classe, preferiscono assumere un’identità generazionale che assume sfumature di casta (se non l’indumento, l’accessorio è diverso portato dai ragazzini borghesi è diverso da quello utilizzato dai coetanei proletari). Pronti poi a ritornare nei panni dei genitori quando la loro funzione sociale si differenzia realmente da quella dei compagni di scuola, cioè quando assumono ruoli direzionali all’interno della collettività.

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In una prospettiva puramente utilitarista, o economicista, la maggior parte dei comportamenti consumistici rimane inspiegabile. Per venirne a capo in qualche modo, bisogna tirare in ballo l’antropologia, e ammettere che la motivazione principale del consumo non è l’ostentazione della ricchezza, ma la produzione di senso. Alla fin fine, l’oggetto diventa un mezzo di comunicazione non verbale, che consente l’ingresso in un gruppo, e l’esclusione di chi non condivide le sue leggi non scritte. Pensiamo all’importanza dell’abbigliamento fra i giovani, all’obbligo di seguire i dettami degli stilisti, alle motivazioni di certi acquisti: “ce l’hanno tutti”, “si usa moltissimo”. Agli status symbol. Tutte cose che, oltre al senso di appartenenza ad un gruppo, generano socialità e condivisione: non è un caso che i luoghi di aggregazione più frequentati siano i grandi magazzini, gli shopping center e i centri commerciali. A denti stretti, qualche intellettuale sta perfino cominciando a riconoscere che alcuni “sono proprio belli”. D’altra parte, anche una volta ci si riuniva in occasione delle fiere e dei mercati. Adesso, piuttosto che demonizzare gli ipermercati moderni, scomunicandoli come templi del consumismo, è meglio accettare la loro funzione sociale, aiutando magari i loro gestori a trasformarli da siti di consumo alienato in posti in cui la gente si possa ri-trovare. Facendo anche compere.

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