Il cinema fra sapori e dissapori

Passando dal cioccolato alla gastronomia globale

di Ivan Mambretti

chocolat binoche 1280

Chocolat, con Binoche, 2000

«Dicono che i topi hanno il gusto del crème caramel, ma siccome non ho nessuna intenzione di mangiarli, non potrò mai saperlo.»  [Quentin Tarantino]

Il cinema gastronomico, che si può dire tragga origine dalle comiche mute delle torte in faccia, ci racconta il cibo in tanti modi: come rappresentazione materiale della sopravvivenza, fonte di felicità, anelito di emancipazione e voglia di condivisione, ma anche come resa alle tentazioni, incuria di corpo e anima, veicolo di peccati con rimando all’Ultima Cena dove il peccato si chiama tradimento, o al morso del pomo proibito che condanna Adamo ed Eva alla cacciata dall’Eden.

Le innumerevoli sequenze cinematografiche che ritraggono personaggi a tavola - o comunque intenti a mangiare - ben sintetizzano momenti di vita che a volte le parole non riescono a descrivere. Due capisaldi del genere sono il grottesco film di Marco Ferreri La grande abbuffata (1973) e quello delicato di Gabriel Axel Il pranzo di Babette (1987).

Ferreri rinchiude quattro amici in una villa fuori Parigi perché gozzoviglino fino a scoppiare d’indigestione fra pantagruelici manicaretti scatenanti coliche, rumori e fetori intestinali che sembrano persino uscire dallo schermo. Una parabola claustrofobica utile a comprendere le brutture di una società fatta di smodato consumismo, ricchezze illecite, ottusità culturale, perdita del senso etico (una sorta di cannibalismo metaforico che emerge almeno da un altro suo film dal titolo inequivocabile: Come sono buoni i bianchi, 1988). Più misurato in tal senso il Fellini-Satyricon (1969), dove una umanità altrettanto infelice tenta di scacciare coi bagordi la malinconia della decadenza.

Rilassante invece lo chef in gonnella Babette, parigina di classe, capitata in una comunità luterana danese, dove generosamente spende la somma vinta a una lotteria per far assaporare a quella povera gente i piaceri della tavola. Le prelibatezze della sua ghiotta performance culinaria riescono a inebriare i pii commensali che, messo da parte ogni scrupolo, si convincono che si può lodare il Signore creatore non solo del cielo e della terra… ma anche del cibo!

 

Mitologia degli spaghetti

In Ladri di biciclette (1948), di Vittorio De Sica, c’è una sequenza esilarante. Padre e figlio, vittime della miseria imperante nell’immediato dopoguerra, si concedono una botta di vita in una trattoria romana. Razioni modeste a poco prezzo, s’intende. Eppure il bambino si trastulla soddisfatto con la mozzarella filante. Nel tavolo accanto sta pranzando una famiglia benestante. Anche lì c’è un bambino che, incrociando fugacemente lo sguardo del coetaneo, mostra un atteggiamento di supponenza. Grande De Sica, che costruendo un momento divertente all’interno di una storia drammatica ci fa scoprire quanto possa essere precoce la disparità di classe sociale. Il bambino povero comprende il sacrificio del padre e, rispettoso e solidale, depone il panino nel piatto.

Buona forchetta per eccellenza del cinema italiano è il romanaccio Aldo Fabrizi, capo-famiglia nello scatenato La famiglia Passaguai (1951) dove, nell’organizzare per Ferragosto una gita a Ostia, non fa mancare nulla ai suoi: frigge le cotolette, cuoce la pasta, prepara i panini. Insomma, papà Peppe tutto predispone per un felice picnic. Nei primi anni Cinquanta, accanto a Fabrizi, sono Totò e i fratelli De Filippo i maestri nell’arte di arrangiarsi, tipici rappresentanti della fame atavica del popolo italiano, specie del sud. Come non ricordare Totò in Miseria e nobiltà (1954), di Mario Mattoli, che danzando su una tavola imbandita si riempie di spaghetti non solo la bocca ma persino le tasche del soprabito!

Nello stesso anno De Sica, in L’oro di Napoli, in cerca di elementi per raccontare al meglio la sua amata città, in uno dei 5 episodi dedica alla pizza un ruolo anch’esso entrato nella leggenda. La pizzaiola è Sophia Loren, attraente e sguaiata popolana che vende pizza ai passanti. Da qui una carriera che la trasformerà in un monumento nazionale di esportazione. Altra sequenza di culto la troviamo in Un americano a Roma di Steno, dove Alberto Sordi veste i panni di Nando Moriconi, burinotto trasteverino così infatuato dei miti d’oltreoceano che indossa solo jeans con risvolti, berretti da baseball, bracciali borchiati e canotte attillate. Purtroppo, a tavola, è costretto a ravvedersi: tale è infatti il disgusto per certi cibi americani in scatola che si avventa su un piatto di ‘maccaroni’, che così apostrofa: «Maccaroni, maccaroni, m’avete provocato e io ve distruggo, maccaroni! I’ me ve magno!» Ci sembra ancora di sentirlo...

In Totò, Peppino e la malafemmina (1956) i due protagonisti, approdati in un albergo di Milano, estraggono dalla valigia spaghetti e caciocavallo. Sapori partenopei, sapori di casa.

Magico il Mario Monicelli di I soliti ignoti (1958) in cui una banda di scassinatori simpatici ma iellati, fallito il colpo, si consola mangiando pasta e ceci trovati in una cucina dove sono finiti per errore. 
È davvero Una vita difficile (1961) quella che nel bellissimo film di Dino Risi ha il suo culmine nel giorno del referendum istituzionale del 1946. Alberto Sordi e Lea Massari, sposi affamati, vengono invitati a cena presso una famiglia di monarchici che manco conoscono. L’invito non è dovuto a un raptus di generosità ma  a motivi scaramantici: a tavola sono in tredici! Tuttavia il numero, a quei distinti signori, porta male lo stesso. Proprio in quel momento infatti la radio fornisce i risultati della consultazione popolare. Vittoria della repubblica. Sordi e la Massari approfittano dello sgomento e della distrazione generale per scaricare dai piatti cibo in quantità industriali. Rimasti a mangiare da soli, brindano all’epocale cambiamento col maggiordomo che la pensa come loro.

L’episodio pasoliniano La ricotta (da Ro.Go.Pag, 1963) racconta la triste fine di una comparsa che, durante le riprese di un film su Gesù, s’ingolfa di formaggio fino a schiattare sulla croce. L’accusa al regista-scrittore è di vilipendio alla religione di stato, ma la provocazione lui ce l’ha iscritta nel DNA, come si evince anche nella sua opera estrema, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) in cui, evocando l’arroganza del regime fascista, denuncia la sopraffazione dell’uomo sull’uomo e mostra giovani vittime sacrificali sottoposte al ripugnante supplizio della coprofagia.

Negli anni Sessanta assistiamo al singolare fenomeno della nascita degli 'spaghetti western', storica espressione con la quale venivano denominati i film di Sergio Leone che rileggeva con sguardo di bambino il mito del Far West. Operazione azzeccatissima, se si pensa che molti suoi colleghi connazionali anche di rango, celati dietro americaneggianti pseudonimi, giravano western in aride lande andaluse o in più caserecce location dell’entroterra laziale.

C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola segna il ritorno di Aldo Fabrizi davanti all’immancabile piatto di pastasciutta. Anche qui la tavola svolge una funzione consolatrice: rimasta nella memoria la scena in cui Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Stefano Satta Flores brindano alla ritrovata amicizia, iniziata durante la resistenza e conclusasi coi fermenti sessantottini dopo aver attraversato il boom economico. Ma la cinematografia alimentare di Ettore Scola non finisce qui. Sono ad esempio Brutti, sporchi e cattivi (1976) i grezzi inquilini delle baraccopoli romane che cercano di avvelenare un tale per sottrargli l’indennizzo dovuto a un occhio da lui perso. Di ambientazione chic sono invece La terrazza (1980) e La cena (1998), entrambi rispettosi dell’unità di tempo e di luogo. Nel primo un gruppo di intellettuali (o pseudo tali) parlano, discutono, cambiano idea, mentre La Cena è l’espediente per raccontare una variegata umanità raccolta in un ristorante. Qui un professore tesse le fila di tavolo in tavolo, dovendosela vedere soprattutto con una padrona misteriosa e un cuoco indisponente. Che lega i film gastronomici di Scola è il tono sospeso fra il farsesco e l’agrodolce. Più agro che dolce l’episodio ‘Hostaria” da I nuovi mostri (1977), dove una comitiva di ricconi convenuti in una trattoria per gustare i rustici sapori antichi ignorano lo scempio che si sta consumando in cucina. I cuochi, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi bravi anche se un po’ sopra le righe, si stanno azzuffando lanciandosi addosso frutta, ortaggi, sughi, carne nonché improperi tutt’altro che raffinati.

Come non citare poi gli spaghetti al nero di seppia che deve trangugiare il falso avvocato Nino Manfredi minacciato dai camorristi nel giallo alla napoletana La mazzetta (1978) di Sergio Corbucci? Ancora Manfredi, trasferito a Londra nel film di Giulio Paradisi Spaghetti House (1982), durante una rapina a un ristorante gestito da italiani finisce fra gli ostaggi rinchiusi in uno sgabuzzino a mangiare pasta cruda.

Anatra all’arancia (1975) di Luciano Salce, nonostante il supporto di due big come Ugo Tognazzi e Monica Vitti, non decolla nella pur gradevole trama: un pubblicitario cerca di riconquistare la moglie servendole in tavola il piatto della loro luna di miele.

Persino il sobrio Ermanno Olmi prova a prenderci per la gola. In Lunga vita alla signora! (1987) un’anziana aristocratica, che nasconde dietro un velo opaco le fattezze di un volto cadaverico, riunisce ogni anno a cena nel suo castello gli untuosi notabili del luogo. Al rito assiste un timido camerierino appena uscito dalla scuola alberghiera che pian piano si accorge delle umiliazioni subite dai commensali, interessati solo a conservare il loro misero potere. L'atmosfera del castello appare al ragazzo così soffocante che all’alba fugge nei prati a respirare libertà e aria pura. Vigorosa allegoria di Olmi sul potere che corrompe, a cui contrappone l’innocenza del mondo contadino.

Facciamoci invece qualche risata con 7 chili in 7 giorni (1987) di Luca Verdone, in cui Renato Pozzetto e Carlo Verdone aprono un centro benessere basato su cibi e bevande inesistenti, da cui gli ospiti possono attingere solo... con la fantasia!

In Pranzo di Ferragosto (2008), diretto e interpretato da Gianni Di Gregorio, un signore di mezza età è alle prese con la madre, arzilla nobildonna decaduta, che ospita le amiche per passare insieme Ferragosto. Il figlio si trova allora a dover organizzare il pranzo per le vecchiette, simpatiche ma bisbetiche, cercando di barcamenarsi bonariamente tra i loro capricci e battibecchi, oltre che fra stoviglie e fornelli.
In Hungry Hearts (2014) di Saverio Costanzo, è descritta la discesa agli inferi di una giovane coppia con bimbo. La moglie, nevrotica e possessiva, è ossessionata da diete ecologiche con le quali vuole nutrirlo. Quando però il marito scopre che il piccolo non cresce e rischia di morire di fame, saltano gli equilibri familiari. Sono gli effetti di una moderna ideologia dietetica autoreferenziale, chiusa a riccio su se stessa e sorda al buon senso.

 

Dolce egemonia del cioccolato

Non di rado i registi utilizzano il cioccolato per raccontare storie dalle molteplici simbologie.

Mentre in Come l’acqua per il cioccolato (1992) di Alfonso Arau il cioccolato accende amori messicani infantili ma duraturi, Fragola e cioccolato (1994), del misconosciuto Tomas Gutierrez Alea, denuncia la difficoltà di essere gay nella Cuba degli anni Settanta. Tutt’altro che sconosciuto Robert Zemeckis, della scuderia spielberghiana, che nel cult Forrest Gump (1994) fa del cioccolato la metafora della vita. La scatola di cioccolatini nelle mani del giovane sempliciotto interpretato da Tom Hanks è entrata nel mito: seduto su una panchina, Forrest ripercorre la storia degli Stati Uniti che lo ha visto testimone ignaro e ingenuo.

In Chocolat (2000) di Lasse Hallströme, Juliette Binoche apre un goloso negozio in tempo di Quaresima suscitando scandalo fra i bigotti del paese. Ma l’ira di costoro si placherà dopo i primi assaggi (così come cadono i pregiudizi dei commensali al pranzo di Babette).

Effetti negativi invece in Grazie per la cioccolata (2000), del vecchio leone della Nouvelle Vague Claude Chabrol, dove il dolce si abbina al male, impersonato da una donna la cui crudeltà si palesa persino nel versare la cioccolata calda. L’attrice è una Isabelle Huppert perversa e ammaliante al tempo stesso, attraverso la quale il regista cerca di indicarci le insidie presenti non solo nella società ma anche in famiglia.

La fabbrica di cioccolato (2005) è la popolare favola di Willy Wonka corretta al digitale da Tim Burton (la prima edizione, firmata da Mel Stuart, risale al 1971). Il proprietario di una fabbrica di dolci lancia un concorso per scegliere l'erede del suo impero. Cinque ragazzi trovano nelle barrette di cioccolato di Wonka i ticket per l’ingresso nella leggendaria fabbrica.
Emotivi Anonimi (2010), di Jean-Pierre Améris, racconta di una maestra cioccolataia che ha paura di tutto e frequenta un gruppo di sostegno per ritrovare se stessa. Rimasta senza lavoro, conosce il timido proprietario di una piccola fabbrica di cioccolato e tra i due si instaura un legame favorito dalla condivisione di quel gusto. Altro film francese è Vatel (2000) di Roland Joffe, ispirato alla storia vera del cuoco suicidatosi per non essere riuscito a compiere il suo dovere fino in fondo: ha tardato a fornire il pesce per un banchetto del Re Sole.

Tra i film italiani ricordiamo anche l’ottimo Pane e Cioccolata (1974) di Franco Brusati, in cui il cioccolato, oltre che essere il dolce svizzero per antonomasia, simboleggia l’inadeguatezza sociale in un contesto di emigrazione. Nino Manfredi, precario garzone giunto dalla Ciociaria in terra elvetica, avverte l’atteggiamento xenofobo degli abitanti. Cerca persino di mimetizzarsi facendosi pateticamente biondo! Ma alla fine, quando si trova sul treno verso casa in compagnia di meridionali che cantano, suonano il mandolino e appaiono rassegnati e quasi felici della loro condizione, lui, amareggiato e deluso, tira il freno d’emergenza, scende e torna in Svizzera, dove spera di ritrovare nel lavoro il senso della dignità perduta.

In Bianca (1984) di Nanni Moretti il protagonista è il professore di matematica Michele Apicella, alter ego del regista stesso. Turbato dal rapporto con la collega di italiano Bianca, si alza nel cuore della notte e si avventa su un enorme barattolo di rassicurante Nutella. Moretti è notoriamente ghiotto di cioccolato, tanto che la casa cinematografica da lui fondata si chiama Sacher.

In Lezioni di cioccolato (2007) di Claudio Cupellini un extracomunitario, che lavora in nero come edile presso un geometra poco attento alle norme di sicurezza, si infortuna. Il geometra allora, per evitare grane e in cambio del silenzio, accetta che l’immigrato lo sostituisca nel corso di pasticceria che potrebbe aprirgli un avvenire migliore.

 

Profumo di spezie nell'era della globalizzazione

Ci lasciamo volentieri trasportare nella gastronomia globale da un filmetto minore, Un tocco di zenzero (2004) di un regista altrettanto minore, Tassos Boulmetis. Ambientato a Istanbul, si diffondono per le strade i profumi d'Oriente grazie all’anziano proprietario di un piccolo negozio di spezie che educa il gusto e il cuore di un giovane perché tramandi la conoscenza della loro arte culinaria.

I processi di globalizzazione che hanno caratterizzato i tempi nuovi sono dunque stati sottolineati dal cinema mediterraneo e orientale anche attraverso la diversità delle cucine. Coi colori e i sapori della nostra gastronomia si sbizzarriscono Ferzan Ozpetek (le tavolate di Le fate ignoranti, 2001) e soprattutto Pedro Almodovar (la cucina di Volver, 2006). Entrambi registi amanti di un cinema al femminile, si compiacciono di rivelare rancori e dissapori dei protagonisti riunendoli a tavola per conversazioni inizialmente amabili ma che poi diventano rissose. La meno nota Nia Vardalos, in Il mio grosso grasso matrimonio greco (2002), apre alle tematiche etniche descrivendo un vivace contenzioso alimentare tra famiglie di diversa etnia.

Nel cinema extra-comunitario (o europeo d’adozione) la gastronomia si fa esplicita voglia di riscatto da antiche privazioni. Ne danno conferma, nel film franco-tunisino Cous Cous (2007), i chiassosi personaggi del regista Abdel Kechiche che immergono le mani in piatti debordanti di unte verdure e si imbrattano appagati e e apparentemente spensierati. Il film turco-tedesco Soul Kitchen (2009) è imperniato sulle peripezie ai fornelli di due fratelli gestori di un ristorante alla periferia di Amburgo. Il regista, Fatih Akin, si è probabilmente ispirato al delizioso Big Night (1996) di Stanley Tucci, dove vengono invece dall’Abruzzo a Brooklyn due fratelli che aprono un locale con tante speranze e poca fortuna. Alcuni titoli del regista taiwanese Ang Lee sono assai eloquenti sull’importanza del cibo nella vita degli uomini: Il Banchetto di nozze (1993), imposto dai genitori per ragioni burocratiche, e Mangiare bere uomo donna (1994), che ci riporta alle nostre essenziali funzioni fisiologiche. Nel film di di Wong Kar-wai In the Mood for Love (2000) le donne vivono la rivoluzione culinaria dei noodles (spaghetti istantanei) e del rice-cooker (cuoci-riso)  approfittando dei giorni di mercato per ritagliarsi un po’ di spazio personale. Qui le pietanze non sono solo elementi della trama ma indicano anche la scansione temporale delle storie. Uno spettatore occidentale non farebbe mai caso a cogliere nelle pietanze lo scorrere delle stagioni, mentre all’occhio allenato dei cinesi tali mutamenti non sfuggono.

Morgan Spurlock è regista americano coraggioso, protagonista e cavia di un docu-film con risultati, per il suo corpo, devastanti. Super Size Me (2005) parte da un fatto inconfutabile: negli Usa si mangia troppo e male (il guaio è che la piaga chiamata obesità affligge anche i più giovani). Il documentarista lo ha voluto dimostrare sulla propria pelle rivelandoci come i tanto frequentati fast food possano far ingrassare e deformare i corpi con conseguenti seri rischi per la salute.

Concludiamo questo nostro excursus citando i Pomodori verdi fritti (1991) di Jon Avnet, che sono la specialità di un luogo di ristoro alla fermata di un treno che non passa più. Passano invece gli anni Trenta, in cui si intrecciano amori e amicizie femminili, memorie di drammi familiari resi suggestivi dai costumi e dalle architetture del profondo sud statunitense, focolaio di razzismo. Un bel film. Peccato che sia piaciuto di più al pubblico che alla critica.

Infine un sorriso. Anche la Pixar non è indifferente al genere culinario. Pensiamo al successo di Ratatouille (2007) di Brad Bird, col maldestro topino di campagna che sogna di diventare un famoso cuoco parigino. Nei sotterranei di un ristorante di lusso rischia ogni giorno coltellate, forchettate e mestolate, ma le cose cambiano quando il topo, manipolando una zuppa, crea un nuovo piatto unanimemente elogiato.

Il nostro elenco potrebbe continuare. Il filone gastronomico è abbondante e nutriente, è un significativo florilegio di ingredienti che qualificano la civiltà di un popolo, la sua cultura, il suo modo di pensare e di agire. Non ci resta allora che sposare la cinica sentenza di Feuerbach: «L’uomo è ciò che mangia».

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