I colori

Il grande schermo

Arcobaleno di luci e immagini

di Ivan Mambretti

grand budapest hotel
Grand Budapest Hotel «I veri pittori non sono quelli che dipingono il sole come una macchia gialla, ma quelli che trasformano una macchia gialla nel sole»

Pablo Picasso

fratelli lumiereI primi esperimenti cinematografici col colore sono successivi di pochi anni rispetto alla fatidica data che segna la nascita ufficiale del cinema: Parigi, 28 dicembre 1895. Sbaglia dunque chi collega ai primordi della sua storia solamente immagini in bianco e nero. Nel luglio 1908 viene data la prima proiezione pubblica di un filmato a colori in presenza, a quanto pare, dei padri stessi del cinematografo: i fratelli Auguste e Louis Lumière.

 

Dagli hobbisti a Méliès

In realtà il filmato non è opera loro, bensì di un hobbysta di nome Edward Turner. Costui ha girato pochi centimetri di pellicola a colori per riprendere i suoi figli in casa mentre giocano con girasoli e pesciolini rossi. Ma Turner è sfortunato: muore prima di quella proiezione e non potrà godere del lungo applauso tributato. Continuano gli esperimenti altri due appassionati, Charles Urban e Albert Smith, che dosando alla meno peggio alcuni colori mandano in visibilio gli spettatori, sempre più incuriositi dalla novità. Al loro marchingegno danno una denominazione, Kinemacolor, che verrà usato anche per filmare l’incoronazione di re Giorgio V. Persino il pioniere e mago Georges Méliès si diverte a trattare col colore alcuni suoi corti (ce lo racconta Martin Scorsese in Hugo Cabret), ma non è convinto e liquida l’operazione come un’inutile perdita di tempo. Dopo la pausa bellica i tentativi riprendono grazie al miglioramento delle dotazioni tecniche e delle apparecchiature, che permettono l’impiego di prismi e speciali filtri. A prova che la strada del colore è ormai tutta in discesa, viene fondato un marchio di garanzia, il Technicolor, che giungerà fino ai nostri giorni.

Il primo lungometraggio di finzione a colori del cinema italiano è Mater Dei, sulla vita di Maria madre di Gesù, girato alla vigilia degli anni Cinquanta con pochi mezzi da don Emilio Cordero, responsabile della San Paolo Film. Ma la pellicola è riservata ai soli circuiti parrocchiali. Per questo tutti convengono che il capofila ufficiale sia Totò a colori di Steno, del 1952, rassegna di sketch rivistaioli in cui il popolare comico napoletano si ripropone nelle sue macchiette: il vagone letto, la marcia dei bersaglieri, il burattino, il direttore d’orchestra. È prodotto dalla premiata ditta Ponti-De Laurentiis e girato in Ferraniacolor, parente povero del Technicolor.

Oggi i miracoli del digitale hanno indotto i produttori a colorizzare vecchie pellicole credendo di rendere loro chissà quale servizio. In realtà il risultato è solo quello di danneggiarne la memoria. Stanlio e Ollio a colori non fanno ridere.

La corazzata PotemkinLa corazzata Potiomkin

Pittura e cinema: la giusta intesa

Due sono le forme d’arte dalle quali il cinema non ha mai potuto prescindere: la letteratura e la pittura. La prima riguarda la parola, la seconda l’immagine. L’immagine precede la parola ed è l’essenza stessa del cinema sin dalle origini, cioè dall’epoca del muto. Sembrerà strano che quando ancora le pellicole sono girate in bianco e nero, già i cineasti cerchino l’ispirazione dai grandi maestri della pittura e dell’architettura non solo del loro tempo ma anche del passato. L’espressionismo, ad esempio, condiziona registi come Robert Wiene (Il gabinetto del dottor Caligari,1912) e W.F. Murnau (Aurora, Nosferatu e altre opere degli anni Venti), nei quali è evidente come certi modelli pittorici influenzino le soluzioni scenografiche che prevedono spesso fondali deformati. Basilari gli studi di estetica cinematografica di Sergej Eizenstein,
autore di un’opera leggendaria come La corazzata Potiomkin, del 1925. Nel suo universo filmico, gli attori non hanno il compito di dominare il set come fanno i loro colleghi dei teatri di posa, ma di integrarsi all’interno della cornice magica dello schermo quasi in un processo osmotico.

In La kermesse eroica, ambientato nelle Fiandre ai tempi dell’invasione spagnola, il regista Jacques Feyder si rifà all’arte fiamminga. Per i kolossal muti tipo Quo vadis? e Gli ultimi giorni di Pompei si tiene conto della tradizione pittorica dell’arte classica e di quegli artisti anche moderni che ad essa si richiamano. Di queste e altre pellicole magniloquenti saranno girati i remake negli anni Cinquanta e Sessanta con l’uso del colore e delle tecnologie più innovative, come il cinemascope. Il successo sarà enorme, ma i riferimenti alla pittura e più in generale alla storia dell’arte sembrano perdersi in una smania tutta commerciale di stupire mediante una spettacolarità fine a se stessa.

Marcata l’influenza della pittura anche nel cinema d’autore. Michelangelo Antonioni sperimenta il colore in Deserto rosso attingendo alla pittura informale, all’astrattismo e al design industriale. Lo stesso in Blow Up, che pure è una riflessione sulla fotografia (che del cinema fu antagonista). Jean-Luc Godard, un padre della Nouvelle Vague, ha il pallino della citazione pittorica: in Una donna sposata, Il bandito delle 11, La cinese, tanto per restare nella feconda stagione dei Sessanta, l’elemento colore sembra avere autonomia propria, indipendente dall’oggetto dipinto. Questa tendenza ad assicurare specificità al colore viene dalla pittura contemporanea. Passion, sempre di Godard, attraverso le vicende di una troupe impegnata nella realizzazione di una serie di ‘tableaux vivants’ ispirati a quadri celebri, mette a confronto la dimensione pittorica e quella cinematografica, cioè un’arte nobile consacrata dalla storia e un’arte ritenuta minore solo perché nuova.

Altro grande artefice della sintesi pittorico-cinematografica è Stanley Kubrick, che rivisita il repertorio plastico-visivo della pop art nell’iperrealistico Arancia meccanica, mentre nel realismo storico di Barry Lyndon è sbalorditivo come il semplice uso delle candele illumini perfettamente gli interni. Anche nel patinato film-testamento Eyes Wide Shut, efficace concentrato di ossessioni sessuali, il regista si immerge in ignote ed esoteriche visioni giocando sul contrasto fra colori ora accesi ora soffusi. Fra gli eredi di Kubrick sono da citare il Terrence Malick di The Tree of Life, variopinta ricerca cosmogonica del senso della vita, e il Christopher Nolan di Inception e Interstellar, che esplorano, prefigurano e dipingono sconosciute dimensioni.

Le incursioni dei registi italiani nella storia dell’Ottocento non possono prescindere dai macchiaioli. Basta ricordare i film di Luchino Visconti Senso e Il Gattopardo, in cui è evidente il richiamo ad artisti dell’epoca come Giovanni Fattori e Silvestro Lega. In tempi recenti l’interesse verso la pittura è alimentato dalla voglia di certi autori di restituire all’immagine filmica un gusto del colore che negli ultimi decenni s’è un po’perso. In questo senso occorre dare merito d’un egregio recupero a Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, autori dotati di sorprendente creatività. La loro cura maniacale di ciascun fotogramma attinge alla pittura delle avanguardie ma con un occhio sempre attento al linguaggio e ai canoni del cinema tradizionale. Basta citare le loro due ultime opere: rispettivamente Il racconto dei racconti e Youth - La giovinezza.

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La giovinezza, foto: Gianni Fiorito

Peter Greenway fa della pittura (dal Settecento inglese alla contemporaneità) un uso tanto soverchiante quanto raffinato, senza peraltro mai raggiungere il successo popolare. Piacciono alla critica Il ventre dell’architetto, sul rigore che deve indirizzare l’arte, I racconti del cuscino, di sapore orientaleggiante, e I misteri del giardino di Compton House, dove una villa seicentesca viene ritratta da più angolazioni. Accanto a film che si limitano a curare costumi e arredi, ve ne sono di quelli che ricercano soluzioni elaborate. Pasolini ad esempio, artista a tutto campo, costella il suo Decameron con dipinti dell’arte gotica nella cui cornice c’è lui stesso che interpreta Giotto. Nota la sua allusione al Cristo morto del Mantegna nel finale di Mamma Roma, così come lo sono le repliche viventi di opere di due grandi manieristi toscani: le “Deposizioni” di Rosso Fiorentino e del Pontormo, uniche immagini a colori contenute nell’episodio La ricotta (da Ro.Go.Pag.).
La merlettaia è il delizioso film di Claude Goretta in cui Isabel Huppert, pazza d’amore, finisce in
manicomio, dove trascorre il tempo ricamando: il suo primo piano finale è una straordinaria imitazione della posa e delle fattezze della fanciulla del celebre dipinto di Vermeer (molto meno riuscito La ragazza con l’orecchino di perla, anche se Scarlett Johansson ce la mette tutta per somigliare alla “ragazza col turbante”).

Molto importante la “trilogia del colore” di Krisztof Kieslowski: Film blu, Film bianco e Film rosso. Pellicole ispirate ai tre colori della bandiera francese e anche ai tre ideali rivoluzionari: blu-libertà, bianco-uguaglianza e rosso-fratellanza.

Ma al di là del discorso sulla pittura come materia che influenza il cinema, è il cinema stesso a farsi arte pittorica nel momento in cui, di epoca in epoca, cambia stile, forme, tecniche, linguaggio e anche il colore. Basta fare il confronto fra una pellicola degli anni Cinquanta e una del giorno d’oggi per comprendere le differenze. Il regista odierno Todd Haynes, per raccontare in Far from Heanven una storia degli anni Cinquanta, ne rende bene l’idea mediante un uso di tinte forti che sono tipiche dei vecchi film strappalacrime della Universal come Lo specchio della vita di Douglas Sirk. Oggi lo sforzo di realizzare immagini veritiere ha cambiato profondamente il modo di usare il colore. Un caso paradigmatico è il cinema di Bernardo Bertolucci. In Il conformista, Ultimo tango a Parigi e Novecento il direttore della fotografia Vittorio Storaro si ispira a Renoir, Manet, Bacon, Pellizza da Volpedo. Il cinema onirico di Michel Gondry punta invece sugli effetti digitali. Dai suoi videoclip fino ai recenti lungometraggi L’arte del sogno e Mood Indigo, Gondry ricrea un piccolo mondo visionario attingendo all’innocenza infantile fatta di sogni, desideri e buoni sentimenti. Un gioco fiabesco di colori caratterizza Il favoloso mondo di Amelie di Jean-Pierre Jeunet, così come è attento all’elemento pittorico l’americano Wes Anderson (Moonrise Kingdom e Grand Budapest Hotel).

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Il favoloso mondo di Amelie

La lunga serie dei biopic

Altro capitolo importante sul rapporto cinema-pittura riguarda le biografie di artisti famosi. Per renderle appetibili, i film sfruttano vizi e virtù (più che altro i vizi, più seducenti) degli artisti di cui si racconta la vita o parte di essa. Di Van Gogh e della sua tormentata esistenza sono stati girati vari film. Il più noto è Brama di vivere di Vincente Minnelli: gli esordi parigini, l’amicizia con Gauguin, le crisi depressive, il suicidio in un campo di grano. Memorabile Kirk Douglas, anche per una certa somiglianza con l’artista olandese. Persino l’orientale Akira Kurosawa si occupa di Van Gogh. In Sogni il protagonista entra per magia in un suo dipinto e si incontra con l’artista dei girasoli, impersonato da un Martin Scorsese reso irriconoscibile dal trucco. Il tormento e l’estasi di Carol Reed è un polpettone storicamente inattendibile sui contrasti fra Michelangelo e papa Giulio II durante i lavori per affrescare la Cappella Sistina. Altro fumettone è La maja desnuda, sulla love story di Goya e la duchessa d’Alba. Più interessante il Toulouse-Lautrec immaginato da John Huston per Moulin Rouge: storpio e afflitto dal male di vivere, anche Lautrec pensa al suicidio, ma la passione per l’arte lo trattiene (morirà devastato dall’alcol). Vizioso al punto giusto anche il Modigliani di Jacques Becker in Montparnasse.

Molti pittori contemporanei sono al centro di film biografici dal modesto successo. Pollock di Ed Harris ci spiega come l’uomo e l’artista, parimenti stravaganti, si identifichino. Ho sparato a Andy Warhol di Mary Harron descrive l’habitat eccentrico dell’artista più che l’artista stesso: a New York, nel fatidico Sessantotto, la scrittrice lesbica e paranoica Valerie Solanas spara all’artista per avere il suo "quarto d’ora di popolarità". Il regista maledetto Derek Jarman, già autore del discusso Blue (film fatto di un unico fotogramma di colore blu!), è uno dei tanti a portare sullo schermo la figura di Caravaggio. Inutile e accademico Surviving Picasso, che pure porta la firma dell’elegante James Ivory. Meglio Julian Schnabel, che con Basquiat mette provocatoriamente in scena le miserie di un artista tossico. Frida di Julie Taymor descrive il rapporto con la sofferenza fisica della pittrice messicana Frida Kalo, malata di poliomielite e vittima di un incidente d’auto.

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Ho sparato a Andy Warhol

Luciano Salce fa di El Greco nulla più che un abbozzo. Esito non migliore per la regista francese Agnes Merlet che racconta vita, opere e amori di Artemisia Gentileschi. Si segnala invece per qualità e impegno espressivo lo sceneggiato tv degli anni Settanta Ligabue di Salvatore Nocita.
Gli ultimi biopic sono Big Eyes di Tim Burton e Turner di Mike Leigh. Il primo è incentrato sull’incredibile storia di una frode artistica consumatasi fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Il pittore Walter Keane ottiene fama e denaro ritraendo enigmatici bambini dagli occhi sproporzionati. Ma alla fine, colpo di scena: i quadri non sono di Keane, ma della ben più talentuosa moglie! L’artista romantico Turner è invece un uomo controverso, scontroso, anarcoide, con problemi familiari e sentimentali irrisolti. Stupisce nel film la ricostruzione degli ambienti e dei paesaggi naturali, che sono speculari all’arte del pingue e bofonchiante protagonista. Woman in Gold è invece la storia di una nipote di Adele Bloch-Bauer che si adopera per riappropriarsi del famoso ritratto dorato che ne fece Gustav Klimt e che fu trafugato dai nazisti per finire poi, nel dopoguerra, al Museo Belvedere di Vienna.

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Big Eyes di Tim Burton

Menzione speciale infine per un classico come Andrej Rublëv di Andrej Tarkowskij, ponderosa riflessione sull’essenza dell’arte e le problematiche connesse alla sua rappresentazione. Rublev è un monaco del Quattrocento che affresca chiese e dipinge icone. L’incontro-scontro con la violenza delle guerre e dei saccheggi lo induce a deporre il pennello. Tornerà a creare solo dopo aver capito che l'arte, oltre che essere sociale, morale e pedagogica, insegna all’artista a precorrere i tempi e al pubblico a intuire il futuro. Del film è a colori solo l’epilogo, che mostra opere vere di Rublëv.

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