L'identità

La prima forma di identità

La lingua madre

di Michela Zucca - PRIMA PARTE

museo etnografico di comboscuro

Coumboscuro (CN), di lingua e cultura occitana

La lingua modella il cervello, la maniera di intendere le cose e lo sviluppo dell’intelligenza

È una facoltà eminentemente umana, indispensabile alla creazione della persona così come viene intesa in qualsiasi civiltà terrestre: la capacità di parlare è una di quelle proprietà caratteristiche dell’uomo che mette d’accordo tutte le tribù del pianeta. Si tratta di un’abilità che si acquisisce esclusivamente tramite il contatto coi propri simili, all’interno di una comunità, di una società, che impone il contatto diretto e prolungato, una relazione intima con gli altri. I bambini 'selvaggi', allevati dagli animali e ritrovati troppo tardi, non sono più riusciti a parlare: le loro possibilità di sviluppo cerebrale e mentale sono rimaste menomate per sempre.

La distribuzione geografica delle lingue, l’esistenza di isole o di raggruppamenti linguistici a macchia di leopardo, tramandano storie di popoli che il più delle volte aspettano ancora di essere raccontate: testimonianze di etnogenesi e irrinunciabile fonte di identità per il popolo che le parla.

Perché prima di tutto la lingua è madre, viene imparata da chi ti mette al mondo, ed è la sorgente primaria di identificazione con gli altri della stessa specie. E questo succede non solo agli umani (degli insetti e dei pesci non lo sappiamo ancora ma probabilmente è la stessa cosa). Sappiamo da decenni che i mammiferi superiori hanno una lingua: pensiamo ai delfini, alle balene… Ma pochi sanno che gruppi di mammiferi parlano una lingua geograficamente delimitata, e che fra loro non si capiscono: verificato fra le marmotte, probabilmente succede anche fra altri animali.

Nel panorama europeo, le Alpi (e specialmente le Alpi italiane) sono il luogo in cui esistono più minoranze linguistiche. Alcune sono riconosciute, come i tedeschi alto atesini, i walser, i cimbri, i ladini che stanno sulle Dolomiti, gli occitani. Altri, come i ladini sursilvani dei dialetti del 'bri', in Valchiavenna, aspettano ancora di essere riconosciuti. La stessa lingua, in Svizzera – il romancio sursilvano appunto – è considerato una lingua nazionale. Anzi: è una delle cinque versioni del romancio – ognuna riconosciuta – che concorrono a formare il romancio 'ufficiale', lingua nazionale.

«La sper il lag» (La sera vicino al lago), in romancio sursilvano (Grigioni, Svizzera)

La Svizzera – nazione alpina per eccellenza e prima democrazia d’Europa – è l’esempio eclatante che le fobie e le paure dei governi nazionali sono infondate: i cittadini della Confederazione parlano quattro lingue madri, diverse decine di dialetti e almeno una lingua straniera. Non per questo hanno avuto mai problemi di identificazione nazionale o si sentono meno svizzeri, o fanno confusione nell’apprendimento a scuola. Anzi: si è sempre saputo che il bilinguismo – lingua madre/dialetto, per esempio, facilita l’apprendimento di altri idiomi.

Ramoneur savoie

Spazzacamino-bambino al lavoro in Savoia

Sulle Alpi si sono sempre parlate più lingue perché i montanari sono abituati ad emigrare, anche su lunghe distanze – pensiamo ai venditori ambulanti, alle professioni specializzate per valle come gli spazzacamini, ma anche semplicemente ai pastori e alle comunità che praticavano la transumanza. Le migrazioni in zone in cui spesso si viveva ai margini della società hanno fatto nascere un’ulteriore differenziazione identitaria e linguistica: quella legata ai gerghi di lavoro di gente che viaggiava a piedi e per dormire si accampava a bordo strada, doveva difendersi dai malintenzionati – ma anche dalla polizia – e capirsi in fretta coi colleghi.

Gli Alpini hanno sperimentato la globalizzazione di fatto ben prima dei voli low cost. E non hanno dovuto aspettare le generazioni Erasmus per capire che cosa si intende per identità multipla e complessa, anche a livello linguistico.

  

 

La lingua come fattore identitario in antropologia

L’uomo di stato tedesco W. von Humboldt (1767-1835) fu il primo a studiare gli idiomi non europei per tentare di stabilire un rapporto fra la mentalità delle genti e le strutture linguistiche che adottano per esprimersi: secondo lui, esistevano sulla terra tanti mondi diversi quante lingue si parlavano. La linguistica acquista dignità di scienza nell’800, attraverso la filologia, cioè lo studio comparato delle parlate indoeuropee. Viene impostata su basi nuove e stabili da F. de Saussure (1857-1913), che ritiene che ogni lingua formi un insieme finito, autosufficiente nel momento stesso in cui viene esaminato, indipendentemente dalla sua storia e dalla sua origine. È sufficiente studiare i rapporti che instaurano fra loro gli elementi che la costituiscono, i segni che la compongono, senza alcun riferimento alla psicologia o alla sociologia, per descrivere lo sviluppo di una struttura autonoma.

Si voleva trasformare la linguistica nella «più rigorosa delle scienze umane». Questa impostazione, accolta in un certo qual modo anche da C. Levi Strauss, che tenta, prendendo per modello la linguistica strutturale, di introdurre un rigore paragonabile a quello della fonetica nello studio dei fatti sociali, mostra presto i suoi limiti. La 'grammatica generativa' di N. Chomsky considera la lingua nel suo sviluppo e nelle sue finalità, come un insieme di regole per produrre delle frasi. Ci si accorge che, da sola, non riesce a mantenere un senso, perché acquisisce un significato solo per i soggetti che la usano, o all’interno dell’impiego che ne fanno le persone: dunque è un mezzo, un media, che serve per qualcos’altro; non è sicuramente un tutto finito in sé, ma un organismo vivo, multiforme, magmatico, dallo straordinario potere di adattamento, in via di continua evoluzione. Ciò che interessa di più l’antropologo sono le condizioni sociali che portano ai cambiamenti linguistici, che mettono di nuovo in relazione gli idiomi con i fattori esterni.

La lingua costituisce un codice, un prodotto incosciente dello spirito umano, che, nello stesso tempo, riflette, forma e modella le strutture soggiacenti alla società, oltre che le identità e le personalità individuali; e, nello stesso tempo, è a sua volta modellata dall’evoluzione sociale, influenzata dai contatti esterni, adattata a seconda dei bisogni, delle aspirazioni, del momento storico: è un prodotto culturale e un sistema di interpretazione della realtà. È un sistema di controllo e di espressione del pensiero, una disciplina sociale che testimonia la capacità di un popolo di adattarsi all’ambiente (economico, culturale, storico) in cui si trova a vivere.

 

I dialetti sono lingue non riconosciute

Che cos’è un dialetto? Niente, formalmente, lo distingue da una lingua, che è la parlata caratteristica per determinati gruppi di individui. Anzi, esistono idiomi importanti, come l’occitano, usato per secoli come lingua delle minoranze colte e dei poeti, oltre che come lingua di scambio dai mercanti dell’intera Europa, come oggi l’inglese, che si sono trasformati in dialetto, sono sopravvissuti solo in zone circoscritte (le Alpi fra la Provenza, la Liguria e il Piemonte) e solo da pochi anni stanno risalendo la china della marginalità. Una certa quantità di queste parlate, però, in zone vastissime, in aree notevoli o su fazzoletti di terra, hanno finito per prevalere su altre, arrivando a servire le esigenze di comunicazione di molta gente, a scapito di altre, che si sono diffuse solo parzialmente. Ma non è solo una questione di numeri, è una questione di status, di prestigio, di classe (e un fenomeno antropologico) perché lingue di piccole nazioni, che pochi conoscono, comunque rimangono lingue (l’Olanda; la Danimarca). E dialetti parlati da milioni di persone, che restano vernacolo. La differenza è stata propiziata da eventi storici, scelte di comunità e di potere, necessità commerciali e sociali, che hanno dato impulso allo sviluppo e alla diffusione di alcuni linguaggi piuttosto che di altri. Tutto il resto, si è trovato appiccicata l’etichetta di 'dialetto'.

Dal punto di vista linguistico, il dialetto possiede particolarità fonetiche, lessicali e idiomatiche in cui una comunità si riconosce, e ne rispecchia la personalità di base. Condensa i concetti, e procede più per immagini plastiche che per mezzo di idee astratte; usa modi diretti, paragoni realistici e corposi, forme sentenzianti e, a volte, per bisogno di immediatezza, utilizza espressioni veriste, che offendono l’orecchio dei benpensanti.

Poesia in dialetto milanese di Carlo Porta

Generalmente, si dice che il dialetto soddisfa solo alcune delle esigenze espressive dell’uomo: quelle legate alla vita quotidiana, non quelle collegate alla professionalità, alla tecnica, alla letteratura. Ciò è vero solo nel momento in cui si considera la letteratura e la tecnologia che provengono dall’accademia: ma non c’è niente di più specifico del dialetto per descrivere gli arnesi da lavoro contadino, adatti solo ad un determinato contesto: per esempio, l’alpeggio, o la produzione di cibi tipici: quando si stende un protocollo per la salvaguardia di un alimento DOC, si usano i termini dialettali: in italiano mancano le parole. Perché il dialetto è l’espressione locale di una cultura. Un patrimonio di valori, una visione del mondo legata ad un determinato tipo di organizzazione sociale e di relazioni economiche che, attraverso il dato linguistico e l’esame antropologico possono individuare dei caratteri differenziati e subalterni rispetto al modello egemone, ma che possono raccontare la storia e la mentalità di un popolo, e non solo delle élites dominanti.

La lingua parlata nella vita quotidiana costituisce, forse, il segnale di identità più immediato, condiviso e coinvolgente di una comunità perché, nello stesso tempo, classifica, organizza e parzialmente determina l’esperienza stessa di chi la utilizza, forma la loro visione del mondo.

L’etnolinguistica è lo studio dei rapporti fra lingua, cultura e società considerate in se stesse, e non come apporto secondario all’etnologia o alla linguistica.

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[ sarà pubblicata il 17 luglio 2020 ]

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