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Le virtù dell’anima

Alla scuola del saggio per conseguire la felicità

a cura di Lorena Pini

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"Nessuno può dirsi felice se sta fuori dalla verità", Seneca, De vita beata

Il concetto di benessere, oggi così variamente frequentato nei salotti alla moda, non appartiene, in quanto tale, all'austero e selezionato vocabolario della filosofia, eppure non sarebbe corretto affermare sbrigativamente un'assoluta estraneità di questo tema alla disciplina della quale qui discorriamo.


Certo, spesso ci rappresentiamo l'uomo di pensiero come un individuo "spaesato e spaesante" nel mondo affaccendato degli uomini d'azione, e qualche ragione per farlo l'abbiamo, se già Pitagora ci insegna che il filosofo si rapporta alla vita come uno spettatore disinteressato agli affari, alle gare e ai divertimenti si comporterebbe alle grandi feste di Olimpia; egli ci appare perciò come una figura eccessiva, come un personaggio anomalo e finanche scomodo, o comunque come una sorta di "animale lunare", necessariamente malinconico.
Tuttavia, il ritratto che ce ne facciamo, spogliato della sua primitiva approssimazione e indagato con occhio attento a cogliere il senso che scaturisce solo dall'insieme, ci dice molto di più e soprattutto ci dice qualcosa di diverso da ciò che credevamo di avere indovinato, come accade ad ogni volto, anche già noto, al quale si conceda finalmente la possibilità di esprimersi.
Ecco allora che se si sa che la pratica della filosofia origina dalla meraviglia, come scrive Aristotele, e che tale moto di stupore, lungi dall'essere pacifico, spesso si traduce in una dolorosa lacerazione del tessuto altrimenti compatto dell'esistenza, è altrettanto vero che, per contaminare i generi e dirla col salmista, "chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo".
Dare confidenza alla filosofia significa infatti risvegliare interrogativi che erano sopiti, mettere in moto un processo di trasformazione interiore destinato a provocare anzitutto turbamento, eppure c'è chi ha suggerito questo: "L'uomo cominci da giovane a far filosofia e da vecchio non sia mai stanco di filosofare. Per la buona salute dell'animo, infatti, nessun uomo è mai troppo giovane o troppo vecchio".
In un significativo rovesciamento di prospettiva, apprendiamo così da questo invito di Epicuro che apre la Lettera a Meneceo, nota anche come "lettera sulla felicità", che la filosofia riguarda un livello di benessere più profondo di quello al quale usiamo pensare, tanto da essere consigliabile a tutte le età.
Procediamo in questa direzione e a fare compagnia a quell'Epicuro che qualcuno potrebbe essere tentato di liquidare come "voce fuori dal coro" troviamo diversi altri pensatori. Tra di essi Seneca, che - conformemente al suo orientamento stoico e all'ideale educativo della ricerca senza fine di perfezionamento interiore - raccomanda la cura dell'anima molto più che del corpo, poiché quella, diversamente da questo, non è soggetta all'usura del tempo e può essere "coltivata" con profitto anche nella vecchiaia.
"Possiamo ancora definire felice chi, grazie alla ragione, non ha né timori né passioni", scrive nel "De vita beata", e più avanti, "Ora, nessuno può dirsi felice se sta fuori dalla verità. Dunque è beata la vita che si basa costantemente su un giudizio retto e fermo. È allora infatti che la mente è pura, libera da ogni male, capace di sottrarsi sia alle ferite che alle graffiature, decisa a restare dove si trova e a difendere la sua posizione anche contro le avversità e le persecuzioni della sorte".

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La felicità alla quale Seneca pensa è propria di chi vive secondo natura, cioè avendo come criterio di giudizio e di condotta la retta ragione. Il saggio, divenendo capace di accettare il bene e il male in modo imperturbabile e di dominare le passioni, si presenta quindi come autentico pedagogo del genere umano, al quale, responsabilmente, mostra la via per la felicità, che non è preclusa ad alcuno, ma anzi chiama tutti a seguirla.
Del resto, già per Socrate e per Platone, saggezza, virtù e felicità stanno o cadono insieme. Come per Socrate non si può conoscere il bene senza scegliere di compierlo e ciò rende felici, Platone scrive nel Convito che sono detti felici "coloro che posseggono bontà e bellezza", ossia i virtuosi.
Così, in continuità con loro, Aristotele - il quale si sofferma anche sul grado più alto della felicità che sta nella beatitudine contemplativa - nell'Etica Nicomachea definisce la felicità nella sua accezione più estesa come "una certa attività dell'anima svolta conformemente a virtù", sostenendo che le persone felici debbano possedere sia i beni esterni, sia quelli del corpo, sia quelli dell'anima. Nel Politico, ancora, egli afferma che "Ciascuno merita tanta felicità per quanto virtù, senno e capacità di agire in conformità egli possiede e si può chiamare a testimonio la divinità, che è felice e beata non per beni esteriori ma di per se stessa, per quello che è per natura".
Ecco dunque che il filosofo, che si identifica con il saggio e ha per modello la divinità, in virtù della sua peculiare condizione esistenziale si fa luminosa testimonianza di una dimensione possibile del vivere, alla quale tutti gli uomini indistintamente dovrebbero tendere, per conseguire il proprio ben-essere.