Un punto di vista scomodo

Perché la verità è che non siamo immortali

di Alessandro Bertolini

Munch The dead mother and the child

Edvard Munch - La madre morta e la bambina

Questo è un argomento impegnativo, perché essere medico e pensare ai propri familiari, quando in uno di loro ci fosse un bisogno di salute, non è mai una cosa semplice da gestire.

Innanzitutto, per il sottoscritto la famiglia rappresenta il forte legame col passato, col presente e col futuro. Il passato lo disegna il ricordo dei miei anziani, quei pochi che sopravvivono e soprattutto la memoria di quanti non ci sono più. La famiglia che siede a tavola con me ogni sera incarna il mio presente, è la ricchezza vera della mia vita, per la quale vivo, lavoro e faccio progetti. Essa rappresenta il mio futuro, che si accenderà quando non ci sarò più e per loro costituirò il passato. La vita è una lenta ruota che gira e posiziona ciascuno di noi diversamente nel tempo. Per il mio essere medico la famiglia è tutto ma è anche un terribile fardello.

Alberto giacometti the artist s mother

Alberto Giacometti - Madre dell'artista

A me ricorrono gli affetti quando c’è un bisogno e non sempre è possibile gestire con serenità le loro richieste. Meglio sarebbe evitare di curare i propri cari, perché si rischia di non essere sereni. L’obiettività è stravolta dalla necessità di non perderli e in un clima così fallace si corre il rischio di cadere in errore. Con gli estranei, essere medico è più semplice e l’obiettività rimane. Nel recente passato chi ha avuto bisogno di me è stata mia madre. La sua agonia è il ricordo più triste che mi tormenta da mesi. Nel luglio scorso ho accompagnato alla morte proprio lei, cui ero legato in modo quasi patologico. È stato un supplizio arrivare alla diagnosi, vederla soffrire per stare in vita il più possibile, per non lasciarci soli come diceva, riferendosi a mia sorella e a me e alla fine lasciarla andar via. È stata una vera sofferenza condividere le sue ultime ventiquattrore di vita. Quando ci ha lasciato ho pianto come un bambino, nonostante sia un medico con una lunga professione alle spalle, che ha visto morire tanta gente e che ha visto soffrire tanti figli, come da figlio soffrivo io in quelle ore. Ma non si è mai preparati del tutto quando tocca alla nostra famiglia. Mamma era l’ultimo legame genitoriale che mi rimaneva, mio padre morì tre anni fa. Con la loro perdita la mia famiglia si è ulteriormente ridotta.

Quando vedo mia sorella, che abita a Milano, mi capita di condividere con lei i nostri ricordi, le frasi care ai nostri genitori, le loro abitudini che spesso ci facevano sorridere, certe manie che tutti hanno ma che in mamma e papà sono più visibili e col tempo divertono. Lei non sarebbe mai uscita spettinata, mentre mio padre aveva un carattere opposto, non dava spazio allo stile o all’etichetta e se fosse stato necessario sarebbe uscito di casa pure in pigiama. La mamma no, o perfettamente in ghingheri altrimenti nessuno avrebbe mai dovuto vederla e di questo abbiamo riso tante volte con mia sorella, quand’erano in vita e anche oggi quando li rammentiamo col cuore.

Quando ci raccontiamo le nostre storie di famiglia, i piccoli aneddoti, anche ora che sono passati mesi dalla morte di una e anni da quella dell’altro, non riusciamo ad evitare le lacrime. Il loro ricordo, le giornate trascorse con loro, soprattutto di quand’ero bambino, rimangono sempre presenti e forti. Esse sono piacevoli ma accendono qualcosa che strugge dentro e da cui risulta difficile liberarsi. Il mio legame con gli affetti più cari mi fa comprendere quanto possano patire le famiglie dei pazienti che curo. Esse vivono le mie medesime sofferenze, quando viene comunicata loro una diagnosi, quando si stila una prognosi o si trasmette un imminente fallimento. Li capisco, perché io stesso da figlio non sono stato immune a quel dolore. Almeno io ho avuto il vantaggio di capire di che stessero soffrendo i miei cari e mi sono dato tutte le risposte del caso e ho cercato, non riuscendoci, di farmene una ragione.

Jan Steen The Doctor and His Patient

Jan Steen - Il medico e il suo paziente

Quando si interagisce di seri problemi sanitari con una famiglia che di salute non sa nulla il percorso diventa arduo. L’accettazione della morte non è più di questa società, che crede nell’immortalità. Aprire gli occhi su un fronte di sofferenza è impresa quasi impossibile. Convincere dell’inevitabile per il medico è il lavoro più complesso. Lui deve guarire se è il caso, curare il più possibile ma anche rendere conto a chi ama il malato, che spesso il bisogno di restare in vita, come accadde a mia madre, è più un atto egoistico che nasce dal nostro desiderio d’immortalità che non una reale possibilità clinica.

Mamma, per restare con noi un mese in più, ebbe a soffrire in modo non giusto e oggi, nel dolore del suo ricordo, dico in modo sereno che se fosse mancata prima non avrei in me, oltre al senso della sua perdita, anche il penoso ricordo delle sue sofferenze. La famiglia è il punto nevralgico del nostro essere capaci d’amare. La famiglia genera sofferenza, il ricordo di chi è mancato è patimento e il futuro porta con sé sempre l’inevitabile. Il medico deve indirizzare nel migliore dei modi chi ruoti con il proprio amore attorno al malato e avviarlo alla consapevolezza della nostra caducità inevitabile. È un percorso che non può essere acceso in pochi attimi ma che comporta un lungo lavoro empatico e continuo. L’accettazione della morte per un familiare è qualcosa d’innaturale nella società di oggi, ma concreto per come sono fatti i nostri corpi.

Lo scrivo da medico, che ha sofferto per la propria famiglia e che ha ben presente cosa sia doveroso condividere con quella dei nostri pazienti.

 


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«L'esame di storia», di Alessandro Bertolini

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