Essere e chi essere

Questo è il problema

di Ivan Mambretti

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«Imparerai a tue spese che nel tragitto della vita si incontrano tante maschere e pochi volti.» Luigi Pirandello

Persona (1966) è il titolo di un film del regista svedese Ingmar Bergman, uomo di vasta cultura e profondo conoscitore dell’animo umano. Persona: curiosa l’origine di questa parola. In latino voleva dire ‘maschera’. Più precisamente era la maschera del teatro classico, con riferimento al concetto del ‘per-sonare’, ossia il risuonare della voce dell’attore che negli anfiteatri aveva bisogno di raggiungere l’orecchio del pubblico più lontano. Da qui, per estensione, la maschera come mezzo dietro il quale ognuno di noi manifesta - ma anche nasconde - fragilità o baldanza, timidezze o timori, convenienze o convenzioni.

 

Dietro la maschera

In Persona Bergman racconta di un’attrice che si chiude in un angosciante mutismo, sopraffatta da una crisi professionale ed esistenziale. Affidata alle cure di una estroversa infermiera su un’isola deserta (come deserte sanno essere le isole scandinave), fra le due si stabilisce una contorta relazione. L’infermiera, convinta che il silenzio della paziente sia un segno di disponibilità all’ascolto, si confida e si confessa, ma presto si accorge che la sua assistita persevera in un silenzio che in realtà equivale a totale distacco. I filmdi Bergman, che puntano all’essenzialità espressiva e indugiano sui primi piani, ci permettono un parallelo con quelli di Michelangelo Antonioni, il cui cinema dell’incomunicabilità e dell’alienazione culmina in Deserto rosso (1964), sua prima opera a colori col valore aggiunto della musica elettronica. I colori rappresentano gli stati d’animo della protagonista, Monica Vitti, musa del regista nel suo periodo più fecondo: i primi anni Sessanta. Nei panni della moglie benestante ma insoddisfatta di un industriale del Ravennate, la donna si fa tentare da un’avventura amorosa sognando di consumarla in un contesto di solitudine. Ma ciò che ritiene uno sbocco liberatorio aggrava le proprie nevrosi, vittima com’è della nuova morale del benessere chiamato boom economico che sta investendo l’Italia, con pro e contro.

Spostiamoci oltre oceano perché anche gli Usa hanno il loro intellettuale di riferimento. Si chiama Woody Allen ed è un arguto investigatore del nostro tempo, che gioca con l’identità dei suoi personaggi in modo divertito e divertente e con monologhi che sono pillole di filosofia e sociologia solo apparentemente superficiali. Zelig (1983) è il film che più di altri mette in scena il moderno sbriciolarsi dell’umana personalità (concetto ribadito nel 1997 con un titolo assai eloquente: Harry a pezzi). Realizzato in forma di docu-film, Zelig ricostruisce la finta biografia di un omino camaleontico e psicolabile che assume e assimila l’aspetto e i modi dei suoi interlocutori. Torna qui il tema della maschera, di volta in volta indossata per apparire quel che non si è. L’origine ebraica e l’educazione newyorkese di Allen rendono credibili le sue elucubrazioni in materia identitaria.

La quotidianità si fa incubo kafkiano nella singolare pellicola di Roman Polanski L’inquilino del terzo piano (1976), dove a Parigi un archivista prende in affitto un appartamento la cui precedente ospite s’è buttata dalla finestra. Ossessionato dall’evento, il giovane si immedesima a tal punto nella suicida da replicarne il tragico gesto.

 

Incubi e ambiguità

Da incubo anche Inseparabili (1988), del carnale David Cronenberg, in cui due gemelli ginecologi (Jeremy Irons nel doppio ruolo), fisicamente uguali ma di carattere diverso, si dividono tutto, donne comprese. L’inquietudine dell'uomo di fronte alla mutazione del corpo è alla base di M. Butterfly (1993), sempre di Cronberg e ancora con Irons. Detenuto per attività spionistica, Irons scopre che l’amante è un travestito. Durante uno spettacolino in carcere, ormai in preda alla follia, si trucca da attrice giapponese e fa harakiri come la farfalla pucciniana.

Di David Lynch, peraltro maestro del cinema onirico, è sufficiente citare Mulholland Drive (2001), film spiazzante e surreale, senza trama, che ignora la cronologia dei fatti e fa leva sulla simbiosi realtà-sogno seguendo gli schemi del thriller. Parola d’ordine di Lynch è confondere lo spettatore. Siamo a Los Angeles. Una donna che ha perso la memoria in seguito a un incidente stradale stringe amicizia con una aspirante attrice. Le due fondono le loro anime in un amplesso saffico. Un assaggio della tematica gay che il cinema non rinuncia a trattare, e lo fa con la giusta apertura mentale e disponibilità culturale. Vedansi Boys don’t cry (1999), dove il pubblico si schiera con l’ambigua Hillary Swank in crisi di identità sessuale che si scontra con una comunità rurale chiusa e ottusa, e Girl (2018), ragazza che sogna di fare la ballerina, ma è in penosa sofferenza perché abita in un corpo maschile. In My beautiful laundrette (1985), spaccato dell’era thatcheriana firmato da Stephen Frears, un pakistano gay gestisce una lavanderia, ma presto esplodono differenze etniche che vengono aggravate da una radicata sessuofobia.

Copia originale (2018) di Marielle Heller racconta la vera storia della biografa statunitense Lee Israel, che per dare una svolta alla sua carriera rovinata dall’alcol, si mette a falsificare lettere di celebri scrittori ricalcandone lo stile. Divenuta truffatrice di professione e per vocazione, questa sua maniacale full immersion nella letteratura altrui svela una insicurezza identitaria che porta a un autocompiacimento vicino alla paranoia.

Chi ha ucciso la bionda ladra sotto la doccia nel motel di proprietà di Norman Bates? Norman o sua madre? Su questo interrogativo si fonda il saggio psicanalitico del mai superato mago del brivido Alfred Hitchcock. Il film, l’avrete capito, è Psyco (1960,con l’indimenticato Anthony Perkins), autentico cult-movie dove lo sdoppiamento della personalità, argomento trattato qualche anno prima in La donna che visse due volte con Kim Novak, assume persino contorni horror in odore di necrofilia: la madre infatti è morta e tenuta imbalsamata in cantina, mentre il figlio si camuffa prendendone le sembianze.

Psyco inaugurò la fortunata galleria degli psicopatici cinematografici, fra cui spiccano l’istrionico Jack Nicholson in Shining di Kubrick, il serial killer Kevin Spacey di Seven e Anthony Hopkins memorabile Hannibal the Cannibal in Il silenzio degli innocenti. Ma a pensarci bene, film-pioniere del filone è Il dottor Jekyll e il signor Hyde, che non a caso conta innumerevoli remake. Il rispettabile medico della Londra vittoriana (uscito dalla felice penna di Robert Louis Stevenson), provando su di sé la pozione chimica per scindere il bene e il male insiti nell’animo umano, mette a nudo i nodi primitivi e arcani che regolano la nostra complessa personalità.

 

L'alter-ego come risorsa d'autore

Big Eyes (2014) è la vera storia dei coniugi Keane. Negli anni Sessanta avevano gran successo in America i dipinti firmati Keane, che ritraevano bambini tristi dagli occhioni esorbitanti. Ne ricavava profitto il solo marito, ma a dipingerli era in realtà la moglie. Il marito è l’esempio del classico mitomane convinto di essere l’artista che non è e ci rivela quanto grotteschi siamo tutti noi quando vogliamo illuderci di una nostra presunta superiorità. Il visionario regista Tim Burton rende anche qui caricaturali i personaggi, pur avendo rinunciato una volta tanto a ingaggiare il suo attore feticcio Johnny Depp. La coppia Burton-Depp si è incontrata per caso sul set di Edward mani di forbice (1990) e si sono scoperti entrambi timidi e introversi, in grado quindi di esprimere al meglio il talento immaginifico scaturito dalle rispettive sensibilità. Ed è così che un attore può diventare l’alter-ego di un regista.

Ma a proposito di alter-ego, è il cinema italiano a vantare l’alter-ego per antonomasia: Marcello Mastroianni. Fortunato e felice infatti il suo connubio con Fellini. Il processo di identificazione inizia con La dolce vita, dove Marcello fa il paparazzo in via Veneto, e prosegue con , in cui l’attore romano impersona un cineasta in pieno blocco creativo a dispetto del suo narcisismo. Mastroianni rappresenta pertanto paranoie, virtù, sogni e debolezze del maestro romagnolo, anche se il prototipo fu il Franco Interlenghi di I vitelloni (1953) nei panni del giovane provinciale Moraldo, l'unico ad avere il coraggio di lasciare il sonnacchioso paesello prendendo il treno per Roma in cerca di fortuna. Appunto come fece Fellini.

François Truffaut, che fu tra i fondatori della Nouvelle Vague, per interpretare il ruolo di Antoine Doinel in I quattrocento colpi (1958), sceglie un bambino dall’infanzia difficile: Jean-Pierre Leaud. Nel film Antoine ha rapporti problematici in famiglia e con la scuola. Le sue piccole malefatte lo conducono persino in riformatorio. Dopo il successo a sorpresa, Truffaut riproporrà nel corso degli anni la figura, ovviamente cresciuta, di Antoine-Leaudin una serie di pellicole dal forte sapore autobiografico.

Altri sodalizi vincenti furono quelli fra John Ford e John Wayne, accomunati dal mito della frontiera, e fra Sergio Leone e Ennio Morricone. Sì, stavolta non un attore ma un musicista, che con le sue magiche e irrituali sonorità trasforma le opere di Leone quasi in spettacoli di balletto. Pensiamo al duello finale fra Clint Eastwood e Lee Van Cleef in Per qualche dollaro in più, all’estenuante triello di Il buono, il brutto, il cattivo (Eastwood-Van Cleef-Eli Wallach), alla toccante ninna nanna di C’era una volta il West che accompagna l’allargarsi maestoso della cinepresa sulla ferrovia in costruzione, alla profonda malinconia del tema di Deborah in C’era una volta in America. Morricone è morto quest’anno. Con lui scompare uno dei pochissimi superstiti del grande cinema del passato.

 

Scontro fra culture arcaiche e le dubbie leggi della modernità

Consuetudini, tradizioni, leggi. Il cinema da sempre racconta le spinte all’innovazione, al cambiamento, alla ricerca di risorse, ieri tecniche oggi tecnologiche. Non può dunque fare a meno di raccogliere la sfida interculturale e identitaria posta dalla globalizzazione e dai fenomeni migratori. Scontro fra civiltà arcaiche e regole moderne. Un argomento nuovo sul quale la narrazione per immagini è già molto avanti, molto ricca e articolata. Obiettivo principale del cinema d’oggi è non mortificare la dignità dei popoli privandoli del diritto alle loro specifiche identità. In questo contesto il cinema appare strumento ideale di comunicazione per aprire le nostre menti su un mondo in continuo mutamento.

Fra i primi registi italiani a comprendere le crescenti complessità socialie le conseguenti difficoltà di relazione troviamo Silvio Soldini, che con Un’anima divisa in due (1993) racconta l’impossibile love story tra un milanese e una rom. Un incontro sentimentale apparentemente semplice che però si complica quando diventa culturale.

Film completo

Vesna va veloce (1996) di Carlo Mazzacurati è la dolente vicenda di una ragazza dell’est che cerca di mantenersi da sola a Trieste. Finisce col prostituirsi, ma fa credere ai suoi familiari che va tutto bene. Vittima di violenze e soprusi, trova conforto nell’affetto di un operaio di condizioni simili alla sua, ma alla fine sceglie la fuga eludendo la sorveglianza degli agenti.

Trasferiamoci all’estero per segnalare almeno due film di Mira Nair: Salaam Bombay! (1988), ritratto di un’India lontana dagli stereotipi dove le più dure realtà sono filtrate da occhi infantili, e Mississippi Masala (1990), in cui un amore interrazziale è ostacolato da famiglie accecate dai pregiudizi.

Lo sguardo di Ulisse (1995) di Theo Angelopulos racconta le peregrinazioni di un regista greco che dagli Usa tornaa casa in cerca di alcuni spezzoni di pellicola sulla nascita del patrio cinema. Albania, Macedonia, Bulgaria, Romania e infine Sarajevo, dove recupererà del materiale assai eloquente sul disfacimento politico e morale dei popoli delle terre balcaniche. Il film è una allegoria della crisi identitaria che ha travolto l’est europeo all’indomani del crollo dei regimi totalitari.

Nello scanzonato East is East (1999) di Damien O’Donnel, ambientato nell’Inghilterra degli anni Sessanta, le resistenze di un capo famiglia integralista islamico alle prese con le voglie “occidentali” dei figli sono descritte coi toni di una commedia ironica in grado di stemperare le tensioni. Come Il mio grosso grasso matrimonio greco (2002) di Nia Vardalos e come i successivi gradevoli film in cui la cucina orientale è tra i fattori identitari: E morì con un felafel in mano (2001) di Richard Lowenstein, Un tocco di zenzero (2003) di Tassos Boulmetis, Cous Cous (2007) di Abdel Kechiche.

Dalla cucina alla musica. Ritmi esotici rimarcano ostacoli, disegnano nuovi orizzonti, indicano vie di fuga da una realtà ingrata. Anche con l’arte, dunque, i migranti si difendono dal disagio di sentirsi estranei. Un concreto esempio ci viene da Gatto nero, gatto bianco (1998) di Emir Kusturica. Fantasmagorico e frenetico, provocatorio e anarchico, è un inno alla libertà sottolineato da chiassose musiche circensi. Kusturica è noto soprattutto per Il tempo dei gitani (1989), incursione nelle famiglie nomadi con colonna sonora di Goran Bregovic, dove un giovane slavo si ritrova in Italia alle prese con un giro che più losco non si può: il traffico di bambini.

Tutt’altro che cupo L’Orchestra di Piazza Vittorio (2006), diario della nascita della band musicale fortemente voluta da Mario Tronco (tastierista degli Avion Travel) e Agostino Ferrente, che hanno riunito un gruppo di musicisti di strada venuti da ogni parte del mondo per fondere nella musica le loro culture e identità. Forse una delle opere cinematografiche in cui meglio si evidenzia come le diverse declinazioni dell’espressione artistica condizionino positivamente i rapporti individuali e sociali e gettino le basi per un sereno avvenire. Un caleidoscopio di colori, stili, tradizioni religiose che si intrecciano, cercano di convivere, condividere e crescere insieme.

La musica fa da collante etnico anche in L’ospite inatteso (2007) di Tom McCarthy, dove la vita monotona di un anziano professore viene scossa dall'incontro con una giovane coppia di immigrati clandestini insediatasi nel suo appartamento di New York. La comune passione per la musica diventa un piacevole grimaldello per scardinare differenze e diffidenze.
In Io sono Li (2011) di Andrea Segre (autore veneto assai sensibile a queste tematiche) una giovane cinese lavora sodo in una fabbrica tessile per guadagnare e far così venire suo figlio in Italia. Trasferita a Chioggia, trova occupazione in un’osteria frequentata soprattutto da vecchi pescatori che poco la rispettano, specie dopo che ha stretto amicizia con uno slavo.

La location di Fuoco ammare (2016), docu-film di Gianfranco Rosi, Orso d’Oro a Berlino, è l’isola di Lampedusa, confine d’Europa, in cui vivono coloro che l’abitano da sempre, i lampedusani, e chi ci arriva da altrove, i migranti. Protagonista un adolescente che si gode la generosa natura dei luoghi. Gli piacciono i giochi di terra, pur se tutto intorno gli parla di mare e di uomini che dal mare sbarcano a frotte. Anche qui, sotto lo sguardo innocente di un ragazzo, si consuma una delle tragedie del nostro tempo.

In Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismaki un calzolaio vive un’esistenza modesta ma tranquilla fino a quando non viene a sapere che la moglie è gravemente malata. Lo risolleverà il tenero incontro sul porto con un ragazzino minacciato di espulsione dalla polizia africana.

Alì ha gli occhi azzurri (2012) di Claudio Giovannesi è il tipico film della periferia romana, proverbiale luogo di incontro-scontro fra migranti e no. Il titolo fa riferimento a un giovane egiziano che porta lenti a contatto azzurre per sentirsi italiano. Anzi, romano. Non vuole avere a che fare con la religione di famiglia, mangia carne di maiale, diserta la moschea. Un ragazzo che ci offre un piccolo esempio dei turbamenti che possono cogliere chi ha smarrito la propria identità e ha perso il diritto di essere libero.

Abbiamo fatto un veloce excursus cinematografico sul tema dell’identità ma, come chi vede la pagliuzza e non la trave, eccoci a fare i conti con un tema che va oltre il cinema. Un tema che ci era sfuggito: la confusione identitaria del cinema stesso. L’irruzione del digitale e il moltiplicarsi dei supporti audiovisivi non ne hanno forse stravolto la fisionomia d’origine, cioè quella dello spettacolo da godere sul grande schermo? Da anni le sale vanno chiudendo i battenti. Saremmo portati a temere che i postumi della pandemia diano loro il colpo di grazia, se non ci confortasse la recente apertura del cinema Excelsior di Sondrio rimesso a nuovo.

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