Inizio e iniziazione

Come il cinema ha raccontato ipassaggi all'età adulta

di Ivan Mambretti

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Boyhood (foto: cinemacritico.it)

«Imparare senza pensare è tempo sprecato, pensare senza imparare è pericoloso».
Confucio

«Facciamo quello che è giusto, non quello che ci conviene. Avviamo i figli all’onestà, non alla furbizia». È un monito del compianto scrittore Tiziano Terzani, autore del libro «La fine è il mio inizio», dove racconta attraverso l’esperienza dei suoi viaggi la ciclicità della vita, insegnandoci come l’iniziazione sia un insieme di riti antichi che hanno sempre preparato l’uomo ad affrontare il futuro nelle sue tappe, nei suoi mutamenti, nelle sue incognite e incertezze.

Infanzia, fanciullezza, giovinezza. Sono le fasi dell’età evolutiva in cui siamo psicologicamente più esposti alle intemperie della vita e alle sorprese del tempo, spesso assaliti da un senso di disorientamento che necessita di conforto e di aiuto. È il momento in cui si devono superare le prove per raggiunge la maturità, che è fatta di scienza, coscienza e conoscenza. I maestri sono tanti: i genitori, la scuola, la società, la strada, le leggi della natura. Le iniziazioni sono dunque processi straordinari: l’individuo perde continuamente la condizione di ciò che è in un gioco ininterrotto di essere-non essere-divenire, con orizzonti sempre diversi che lo proiettano in ciò che sarà.

Curioso il caso del regista Richard Linklater, che realizza nel corso di ben 12 anni il film «Boyhood», per seguire con totale realismo la vita di un ragazzo dai 6 ai 19 anni, in pratica dalla scuola elementare all’iscrizione al college. Lungo e complicato periodo in cui si raccontano il rapporto con matrimoni falliti, genitori divorziati, venti di crisi, traslochi, il cambiamento delle cose, dei costumi, delle mode. Ogni anno, per 12 anni, il regista ha radunato la stessa troupe e lo stesso cast per osservarli da vicino e guidarli nella loro maturazione. Maturazione autentica, non frutto di fiction.

 

Il tempo e i luoghi della crescita: la scuola e il collegio

Non era una consuetudine cruda come in caserma, ma anche nelle scuole e nei collegi il nonnismo era per le matricole una rozza pratica d’iniziazione. Parliamo al passato perché ci piace pensare che certi soprusi, spesso di pessimo gusto, oggi siano scomparsi. Ma se la goliardia è venuta meno, l’iniziazione rimane un ineludibile fattore umano. Iniziazione è ad esempio il rigore stesso del collegio, che con l’obiettivo di plasmare gli allievi, li imprigiona, li isola, li ingabbia, li tiene lontani da casa, dalla famiglia, dalla società.

In «I 400 colpi di François Truffaut», film-manifesto della Nouvelle Vague, un ragazzino trascurato dai genitori scappa dalla scuola e diventa un monello da riformatorio. Ma evade anche da lì e giunge fino al mare che non aveva mai visto. E il mare gli apre la mente e il cuore, e lui prova per la prima volta il piacere della libertà. Il protagonista, l’attore Jean-Pierre Léaud, si chiama nel film Antoine Doinel e il regista lo utilizzerà per decenni come alter ego. Il tema della fanciullezza incompresa, descritta da Truffaut con asciutto stile narrativo, deriva da Zero in condotta, mitico cortometraggio di Jean Vigo. Qui il collegio è un luogo austero governato da tutori ottusi che infliggono punizioni finalizzate persino a privare gli allievi di quel dono che è la creatività. A prendere 'zero in condotta' è un gruppetto di ragazzi che decidono di insorgere correndo sui tetti, dove possono finalmente sfogarsi e sentirsi padroni della situazione. Nei tafferugli che si scatenano gli adulti hanno la peggio. Poemetto della memoria di un regista morto assai prematuramente, il film costituisce un originale apologo sullo spirito anarchico tipicamente giovanile che si contrappone all'ordine borghese, gretto e arrogante.

Un classico a colori è «L’attimo fuggente» di Peter Weir, sulla straordinaria vicenda scolastica del professor Keating, giovane insegnante di letteratura assunto in un prestigioso collegio maschile del Vermont. Succede però che il suo approccio didattico controcorrente urti contro i rigidi princìpi vigenti e il docente diventi presto destabilizzante per l’istituzione. Prima ancora della poesia, che pure sui giovani ha un inconfessato e insospettabile ascendente, il prof insegna i veri valori della vita, ma soprattutto ad afferrarla momento per momento, perché il tempo passa e non torna più. Cogliere l’attimo insomma, carpe diem, per dirla con Orazio. Col suo entusiasmo Keating conquista gli studenti, che sono invogliati a riattivare persino una loro piccola società segreta: la «Setta dei Poeti Estinti». Ma la posizione di Keating diventa sempre più scomoda per i contrariati colleghi, che lo vedono ormai come intollerabile elemento di disturbo all’interno del sistema educativo. Oltre tutto, ai docenti reazionari si uniscono genitori all’antica. Ritenuto responsabile del suicidio di un allievo, il prof viene allontanato, ma lascia trionfante la sua classe: gli affezionati studenti, in una sequenza toccante quanto memorabile, salgono in piedi sul banco e lo salutano con una invocazione di Walt Whitman: «Capitano, mio capitano». Salire sul banco è un atto rivoluzionario perché fa vedere la scuola (ma anche il resto del mondo) da una prospettiva completamente diversa.

Il collegio di Louis Malle in «Arrivederci ragazzi» è invece un palcoscenico di varia umanità pesantemente condizionato dal clima di guerra. Parigi 1944. Gli allievi, nonostante i dispetti e le reciproche antipatie, familiarizzano e avvertono i primi turbamenti della pubertà. Fra due studenti nasce una profonda amicizia. Il primo è un ragazzo alla buona. L’altro, più snob, suona il piano e legge libri. Purtroppo gli effetti nefasti della guerra irrompono anche in quella comunità chiusa e i bombardamenti costringono tutti a scendere in rifugi oscuri, umidi e maleodoranti. Malle ben descrive il dramma interiore di quei ragazzi, fra i quali ci sono degli ebrei. Coprirli diventa difficile e purtroppo ci scappa una denuncia alla Gestapo. I tedeschi entrano con prepotenza nell'istituto e diffondono panico, terrore, sgomento. Scattano punizioni esemplari non solo a danno dei ragazzi ma anche del rettore che li ha nascosti. È venuto il momento di capire tutto l'orrore della guerra. La guerra: quale peggior modo per cessare di essere bambini, per comprendere il lato oscuro dell’anima dei grandi, per conoscere il potere del male!

In «Sciuscià» di Vittorio De Sica la guerra è finita e l’Italia è in rovina. Due amici si guadagnano da vivere facendo i lustrascarpe dei soldati americani ('sciuscià' è la napoletizzazione dell’inglese 'shoe shine'). La strada è la loro casa, dalla strada ricevono l’educazione, la formazione, gli insegnamenti di vita (ma che vita è?). Nell’immaginario di quell'infanzia rubata si agita un oggetto del desiderio: un cavallo bianco, simbolo di un candore che dovrebbe essere proprio della loro età e che invece non hanno mai conosciuto. Sognano di comprare l’animale, anche a costo di guadagni illeciti che li porteranno in riformatorio. Qui sperimentano una disciplina fatta di regole brutali. L’Italia che si prepara a diventare una potenza industriale ha essa stessa una iniziazione, mal celata dentro le guerre, la dittatura, la miseria, lo smarrimento generale. E le vessazioni del collegio ne sono una eloquente metafora. Eppure sono gli anni della ricostruzione del Paese, fatta di sforzi, rinunce, maniche rimboccate, obblighi morali. Gli anni di un sudore collettivo che porterà l’Italia fuori dalle macerie e verso il boom economico. Per intenderci, gli anni Cinquanta.

L’altra faccia di questo epocale decennio, la faccia della meschina irresponsabilità, ce la racconta Federico Fellini in «I vitelloni». Cinque giovani amici romagnoli, annoiati dalla vita di provincia, trascorrono il loro tempo al bar, tra feste e carnevalate. La parola d’ordine è evitare l’impegno, il lavoro, la fatica, le regole. L’ozio e il gioco sono le loro occupazioni, a spese dei genitori. Pur in tanta frivolezza, percepiscono il malessere di quell’esistenza sbracata e forse, intimamente, si augurano di riscattarsi. Uno di loro, Moraldo, fa le valigie e lascia il borgo abbandonando gli affetti familiari e le care abitudini. Sale sul treno e parte per Roma in cerca di fortuna. È l’alba, gli amici dormono ancora. Tutti dormono: la provincia rinuncia a svegliarsi. Moraldo è dunque Fellini che ci parla del coraggio che ha avuto ad andarsene perché il paesello gli stava stretto. Paolo Sorrentino, nel suo film autobiografico «È stata la mano di Dio», ripropone un analogo finale col giovane Fabietto che prende il treno e parte per Roma in cerca di un posto nel mondo del cinema. Sia Moraldo che Fabietto scorgono dal finestrino un ragazzino, solitario e quasi misterioso, che li saluta benevolmente dalla piccola stazione. Entrambi i registi, sensibili narratori di epoche diverse, hanno fatto carriera realizzando il sogno della loro vita, forse ispirati da quel mostro sacro della nostra letteratura che fu Giacomo Leopardi, esule volontario dal 'natìo borgo'.

Anche il bimbo diNuovo Cinema Paradiso è destinato a egregie cose. Il film di Giuseppe Tornatore descrive con spirito nostalgico il microcosmo umano che ruota intorno alla sala cinematografica di un paesino siciliano negli anni prima del boom. I personaggi principali sono il proiezionista e il suo allievo, Totò, che ne prende il posto quando l’operatore rimane cieco per un incendio in cabina di proiezione. Partito per Roma dove diventa anche lui un affermato cineasta, Totò tornerà a casa alla notizia della morte del vecchio maestro, colui che del cinema gli aveva insegnato i segreti, la via e le magìe.

 

Ma la prova più terribile si chiama guerra

La guerra, prima che un argomento ricorrente nella cinematografia di tutto il mondo, è stata fatta propria dalla letteratura di ogni tempo e latitudine. Da Omero a Giulio Cesare, da Hemingway a Remarque, sino alla infinita produzione di libri sull’olocausto e la campagna di Russia. La guerra è stata sviscerata in tutte le molteplici facce: psicologiche o strategiche, ora permeate di elevati ideali ora contaminate da istinti bestiali. La vita al fronte è animata da uomini che si muovono nella consapevolezza di essere pedine di un disegno pensato altrove da menti bacate, come insegnano opere importanti quali «Orizzonti di gloria» di Stanley Kubrick, «Uomini contro» di Francesco Rosi, «La sottile linea rossa» di Terrence Malick. A fare le spese di ogni guerra sono i civili: donne, vecchi e bambini. Ed è soprattutto nello sguardo attonito dei bambini che i conflitti armati appaiono come mostruosità prive di senso.

Chiaro esempio di cosa significa subire il crudele contesto della guerra è «L’infanzia di Ivan» di Andrej Tarkowskij, una storia di fanciullezza rovinata e di maturità negata. È in atto nel film una selezione antropologica: chi non supera le prove viene eliminato. Il duplice scenario parla chiaro. Da un lato l'acqua fresca, la campagna, i boschi, l’affetto materno, le amicizie. Dall'altro la palude, le nebbie, i soldati, le bombe, le imboscate. Ivan, che ha perso la famiglia, aiuta i compagni russi al fronte. Esperto conoscitore delle insidie dei luoghi, gli viene affidato il rischioso incarico di esploratore. Ma viene scambiato per una spia nemica e catturato. Di lui più nulla si sa fino a quando, terminata la guerra, viene alla luce un dossier che certifica la sua uccisione.

«La ciociara», che De Sica ricava da Moravia, è invece la penosa vicenda di una madre che non riesce a impedire lo stupro della figlia dodicenne da parte di un manipolo di soldati marocchini. Dopo questa orribile violenza consumatasi fra i ruderi di una chiesa, profondo e sconvolgente sarà il cambiamento della ragazza, mentre la madre, a sua volta lacerata dal dolore, vede crollare sogni e speranze. La maturazione della giovane è repentina e innaturale, non generata dalle leggi della biologia né da libera scelta, ma causata da un trauma irreparabile. Lei ora è irriconoscibile e il suo avvio alla vita è dei più crudi, anche perché aleggia l’ingiusto sospetto che la madre non abbia fatto il possibile per proteggerla.

In alcuni film di guerra il processo di iniziazione è stroncata sul nascere. In «Germania anno zero» Roberto Rossellini punta la macchina da presa sulla Berlino del '46, o meglio su quel che ne resta, devastata com’è dalle bombe. Il protagonista è un ragazzino solo, abbandonato, impaurito. Con lo sguardo fisso nel vuoto, vaga senza meta fra le rovine della città. Salito su una torre campanaria, vede portar via il padre morto e, disperato, si getta. Rossellini sviluppa la sua tematica antimilitarista indagando dentro quella anonima e opaca umanità e ne coglie la totale rassegnazione, quasi che vivere in un simile tragico contesto sia ormai un fatto naturale. Forse non è un caso che il piccolo suicida, simbolo della fine del nazismo, sia un biondino con gli occhi chiari, che secondo la vulgata è una caratteristica fisica della razza ariana (per di più si chiama Helmut, un nome che più tedesco non si può!). Va da sé che l’iniziazione non riguarda qui solo il piccolo che non ce l’ha fatta, ma tutto un mondo che si deve risollevare.

Benché di tono meno cupo, anche «Le 4 giornate di Napoli» di Nanni Loy descrive la guerra come uno spettacolo che dovrebbe essere proibito ai minori. È un film corale che rievoca la rivolta popolare nella città partenopea. Rivolta che piegò le truppe tedesche prima ancora dell'arrivo degli Alleati. Parteciparono all’insurrezione anche molti ragazzi fuggiti dal riformatorio, fra i quali lo sfortunato Gennarino Capuozzo, morto con una bomba in mano per non aver fatto in tempo a lanciarla contro i carri armati nemici. Spinti da improvvisi aneliti patriottici, i napoletani imbracciarono il fucile, si armarono di pietre, chincaglierie, bottiglie di benzina e combatterono nei quartieri dando vita a una pagina di vera e propria Resistenza. La cosa sorprendente è che contro i nazifascisti si unirono tutti i ceti sociali e persino elementi della malavita. Una unità di intenti e di spirito che costituì un esemplare contributo alla rinascita dell’intera nazione.

«L’uomo che verrà» di Giorgio Diritti narra gli eventi che precedono la strage di Marzabotto dal punto di vista di una bambina. Corre l’anno 1943 e sul freddo Appennino emiliano, alle pendici del Monte Sole, la piccola Martina vive insieme ai genitori, poveri contadini. Ha otto anni e non parla da quando le è morto il fratello. Sulla popolazione incombono sia le brigate partigiane che le squadre tedesche. Martina segue con muta apprensione i nove mesi di gravidanza della mamma che le darà un nuovo fratellino. E proprio mentre il bimbo sta per nascere, il nemico mette il paese a ferro e fuoco e dà inizio al rastrellamento che porterà all’eccidio di tanti civili inermi. Doversi prendere cura del fratello restituisce a Martina forza, coraggio e, forse, anche la voce.


La natura e l'uomo

«Il buio oltre la siepe», che Robert Mulligan ricava dal noto romanzo di Harper Lee, è ambientato nel 'profondo Sud' degli Stati Uniti, dove l’occhialuto avvocato Atticus Finch, uomo probo e di solidi principi, difende un nero ingiustamente accusato di aver violentato una ragazza bianca. Il nero viene condannato da una giuria di razzisti. L’avvocato, che ha lottato a denti stretti fino all’ultimo ma deve accettare l’infausto verdetto, raccoglie però la stima della comunità di colore e l’orgoglio della piccola figlia, nella cui mente comincia a farsi largo la differenza fra bene e male, fra giustizia e pregiudizio, fra istinto e ragione. Il film accosta abilmente il tema dell’intolleranza razziale alle insicurezze e agli incubi della fanciullezza. Il buio del titolo si riferisce all’alone di mistero che circonda una villetta del paese. Secondo voci di popolo sarebbe abitata da un matto, ma i ragazzi faranno una bella scoperta: il matto altro non è che un povero emarginato indifeso (altri sono i matti!).

In «I bambini ci guardano» di De Sica, una vita familiare disastrata toglie la serenità a un bimbo che vede, soffre, giudica con la mente confusa di un innocente costretto a confrontarsi per la prima volta con problematiche molto più grandi di lui. I bambini sono un tema caro a De Sica: abbiamo già accennato a «Sciuscià», ma possiamo citare anche «Ladri di biciclette», dove il piccolo divide con papà tribolazioni e amarezze dell’immediato dopoguerra.

Con lo sdoganamento della gaytudine, si afferma anche una cinematografia che analizza le sensibilità, le diversità e le tendenze più intime dell’odierna umanità. Un maestro del genere è certamente Pedro Almodovar, di cui vogliamo menzionare almeno «La mala educacion», dove due ex compagni di collegio si incontrano più avanti negli anni scoprendosi omosessuali e ricordando le passioni proibite di un sacerdote.

Anche la cinematografia western è interessata al tema dell’innocenza perduta. In «Piccolo Grande Uomo» di Arthur Penn, Dustin Hoffman è un bianco goffo, pavido e impacciato che viene allevato dai pellerossa ma che da adulto è costretto a fare i conti con la sua doppia identità. «Un uomo chiamato cavallo» di Elliott Silverstein racconta invece di un baronetto inglese catturato dai Sioux sugli altipiani del Montana, portato all’accampamento e usato come 'cavallo da lavoro'. Col tempo impara la lingua e supera estenuanti prove fisiche fino a diventare uno di loro. Anzi, un capo tribù. Ricco di annotazioni etnografiche, il film contiene alcune scene iniziatiche da brivido, come quando il protagonista viene appeso con ganci infilati nella pelle del petto!

Nell’enfatico film di George Stevens «Il cavaliere della valle solitaria» uno sconosciuto cowboy biondo-crinito, dallo sguardo bonario e animato da nobili sentimenti, aiuta una famiglia di contadini a liberarsi dagli oppressori. Compiuto il suo dovere, questa sorta di cavaliere medievale trapiantato nel Far West monta in sella e se ne va, invocato dal pargoletto di famiglia che, dopo aver conosciuto l’umana cattiveria, in lui ha scoperto il bene. 'Shane, Shane!'. Il piccolo grida il nome dell’eroe, ma il nome echeggia inutilmente nella valle.

Il western, si sa, è un genere glorioso ma tramontato. Né bastano a rivitalizzarlo alcuni film che ancora escono di tanto in tanto. È il caso di accennare a due recentissime opere 'minori' che per combinazione hanno in comune proprio storie di formazione: «Notizie dal mondo» di Paul Greengrass con Tom Hanks e Cry Macho di e con Clint Eastwood. Rispettivi protagonisti sono due anziani cowboy. Per apparire vecchio Tom Hanks ha dovuto sottoporsi al trucco mentre il collega Eastwood, 91 anni, non ne ha avuto bisogno! Hanno entrambi il compito di recuperare orfanelli che stanno crescendo infelici lontano da casa, senza affetti, tra gente piuttosto fredda. Dalla frequentazione fra giovani e anziani nascerà un feeling capace non solo di ammorbidire asprezze e incomprensioni, ma addirittura di creare un forte legame che sviluppa negli adulti un senso di protezione. Sì, perché in fondo anche gli adulti, quasi in balìa di una sorta di iniziazione permanente, hanno sempre bisogno di migliorarsi.


Il disagio giovanile, oggi

Occorre osservare come un certo cinema minimalista del nostro tempo presti attenzione al tema della crescita dei minori, con l’occhio della cinepresa aperto anche sul fenomeno migratorio. La produzione in materia è sterminata e ci costringe a scegliere quasi a caso. E a caso ci viene subito in mente «Cloro» di Lamberto Sanfelice. Passato ingiustamente sotto silenzio, il film narra di una diciassettenne che, morta la madre, rimasta senza casa e indebitata, si vede costretta a lasciare Ostia (e l’hobby del nuoto) per trasferirsi in montagna col fratellino e il padre demente. Qui trova lavoro come cameriera in un hotel. Si tratta di un dramma capace di fondere la crisi sociale dell’Italia del terzo millennio col cambio di passo di una giovane, resa adulta anzitempo da una serie di avversità individuali e sociali.

«La paranza dei bambini», che il regista Claudio Giovannesi ricava da un romanzo di formazione di Roberto Saviano, descrive le inquietudini di un gruppo di ragazzini molto vivaci ma al tempo stesso fragili e purtroppo vittime del crimine. I ragazzi si illudono di portare giustizia nel rione Sanità ma inseguono solo il male sacrificando valori come la famiglia, l’amore, l’amicizia. E non c’è redenzione. La paranza è una imbarcazione che consente, con la luce delle lampare, di pescare pesci non ancora adulti. L’allusione degli autori è inequivocabile.

In «A Ciambra» di Jonas Carpignano, nella piccola comunità Rom nei pressi di Gioia Tauro, un adolescente vuole crescere in fretta: beve, fuma, contatta con facilità sia connazionali che immigrati. Suo maestro è il fratello maggiore, che gli insegna l’arte di arrangiarsi. Quando il fratello esce di scena, dovrà metterne a frutto gli insegnamenti per verificare se è pronto a diventare un uomo. Lo stesso regista gira un film dal titolo assonante, «A Chiara», in cui torna a Gioia Tauro per raccontare i turbamenti e le domande tipiche di una adolescente. Ma le domande restano senza risposte: l’adolescente non è ancora abbastanza grande per comprendere ciò che è meglio dire, fare, pensare, tacere, fingere di non sapere...

Significativo anche «Cafarnao» di Nadine Labaki, che dimostra come i giovani paghino per i conflitti, gli errori, la presunzione e l’arroganza degli adulti. Soffrano per l’ottusità della burocrazia e soprattutto per l’assurdità di quelle istituzioni umane chiamate confini. Cafarnao era il villaggio biblico del caos, dell’inferno, del disordine. Oggi Cafarnao simboleggia il villaggio globale con problemi sempre più giganteschi, dove a pagare sono le nuove generazioni.

Col recente «Figli del sole» di Majid Majidi siamo a Teheran, dove la manodopera è data dallo sfruttamento minorile. E siccome la manodopera è spesso controllata dalla malavita, ecco che i bambini vengono addestrati a compiere piccoli furti e scippi e a campare di espedienti. A un gruppo di ragazzini si offre una straordinaria chance: la promessa di un tesoro nascosto sottoterra, accessibile solo dall'interno di una scuola. Fingendosi preoccupati di riprendere gli studi, si iscrivono regolarmente, ma il loro intento è di mettersi a scavare un tunnel. Di scavo in scavo, di cunicolo in cunicolo, di fogna in fogna, in un’atmosfera claustrofobica per non dire tombale, dove i ragazzi si trasformano in 'figli del buio', il contatto e il confronto con la generosità della scuola che frequentano finirà per donare loro un senso di appartenenza e li metterà nella condizione di aprire la mente verso un positivo cambiamento. Il film è un inno al valore della cultura quale strumento fondamentale di crescita umana e sociale.

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