Un attributo soggettivo

editoriale | Non è semplice distinguere i due opposti

di Gloria Ciapponi

illusione ottica 1024

La concezione più diffusa nella nostra cultura è che le azioni crudeli siano l’esito della personalità o del patrimonio genetico di chi le compie.

Così ci ritroviamo un mondo composto da buoni da una parte e cattivi dall’altra. Ma questa divisione semplicistica dimentica che in realtà ognuno di noi, in determinate circostanze, può infierire contro un altro essere vivente: l'attivazione combinata di alcuni processi sopprime i normali vincoli morali e crea i presupposti per l'attuazione di condotte disumane anche in persone solitamente tranquille. «Per quanto differenti appaiano i destini, una certa compensazione di mali e di beni li rende tutti uguali», scriveva Francois de La Rochefoucauld.

Ma il male non è assoluto, è relativo al nostro mondo ed esiste solo perché noi lo definiamo tale e lo contrapponiamo a qualcosa che definiamo “bene”, vacuo anch’esso se lo intendiamo in senso assoluto perché alla fine sono solo le caratteristiche analitiche della mente umana che ci creano l’illusione del bene contrapposto al male. «Nessuna cosa è absolutamente mala; perché la vipera non è mortale e tossicosa a la vipera; né il drago, il leone, l’orso a l’orso, al leone, al drago; ma ogni cosa è mala rispetto di qualch’altro», ci insegna Giordano Bruno. Il male insomma è un concetto inventato dall’uomo per l’uomo che necessita di fare dei confronti, dei paragoni, quindi di leggere ciò che lo circonda in modo duale, di distinguere i due opposti e dar loro persino dei valori.

Ciò premesso, possiamo affermare che il male è un attributo soggettivo e che per taluni è male ciò che per altri rappresenta il bene. Scriveva Oscar Wilde: «Le cose peggiori sono sempre state fatte con le migliori intenzioni.» Per l’individuo il male è tutto ciò che lo minaccia, lo offende, lo ferisce, ma non sempre esso stesso è in grado di comprendere cosa provochi questi stati d’animo, oltretutto spesso quello che lo fa stare bene priva altri, li ferisce, anche inconsapevolmente, tanto che si trova a barcamenarsi tra compromessi e decisioni. Non possiamo certo dare torto a Mahatma Gandhi: «Nessuno può farti più male di quello che fai tu a te stesso». Non ci sono limiti ben precisi, non ci sono guide assolute, se non l’istinto di sopravvivenza. Ma allora la cosa più importante è il proprio stato psico-fisico, da salvare a ogni costo anche se a discapito di chiunque altro?

Ecco allora che il male diventa un concetto da contestualizzare, perché ciò che lo rappresenta per un individuo può non farlo per la società, per lo stato in cui vive: l’egoismo individuale si scontra con l’altruismo sociale, l’istinto contro l’altruismo (che non appaga ugualmente). «Il vero male, l’unico male, sono le convenzioni e le finzioni sociali, che si sovrappongono alla realtà naturale», Fernando Pessoa cambia punto di vista. E se estendiamo il concetto all’umanità intera, cambiamo ancora i parametri, quelli che ruotano attorno alla conservazione della specie; e se facciamo un altro passo avanti dobbiamo includere l’ambiente che si contraddice con lo stesso nostro istinto riproduttivo, e allora diventa male anche uccidere qualsiasi forma di vita, i compromessi si sovrappongono, si annientano, mutano. Sballottati tra le onde di valori sempre più instabili, concordiamo anche con Marcel Proust che addirittura cerca un metro per misurarli: «Ci sono dei mali dai quali non bisogna cercare di guarire perché sono i soli a proteggerci contro quelli più gravi».

Il Male diventa Bene, il Bene diventa Male, se riusciamo ad ammettere con Italo Calvino che «anche ricordare il male può essere un piacere quando il male è mescolato non dico al bene ma al vario, al mutevole, al movimentato, insomma a quello che posso pure chiamare il bene e che è il piacere di vedere le cose a distanza e di raccontarle come ciò che è passato».

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