I cinque sensi

Maestri dello sguardo

Nel cinema di ieri e di oggi

di Ivan Mambretti

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Snowden, di Oliver Stone

«Gli occhi sono il luogo dove si mescolano l’anima e il corpo.» Christian Friedrich Hebbel

Esce un film in prima visione... Prima visione? Sì, ma fino a un certo punto. Quel film infatti è già stato ‘visto’. Da chi? Ovvio: dal suo regista. Ma il regista, nel filmare, ha dovuto a sua volta fare i conti con un terzo occhio, che ha lavorato di pari passo assieme a lui: l’occhio della macchina da presa. Il frutto di questo intreccio umano e meccanico di sguardi che chiamiamo cinema è dunque una sorta di inganno, anche se un dolce inganno. L’inganno antico dello spettacolo. Spettacolo è parola dall’etimo inequivocabile: indica l’oggetto che si guarda, l’oggetto che è proprio delle arti figurative, opera dell’uomo, espressione del suo gusto estetico, del suo estro, della sua inventiva e invenzione da cui dovrebbe scaturire, per dirla con Paolo Sorrentino, la ‘grande bellezza’.

Dei cinque sensi è la vista a farla da padrona in quel magico amalgama di immagini luminose che appunto è il cinema. Una forma d’arte che lo spettatore segue non solo con gli occhi, ma con l’intelligenza e il sentimento, con la capacità di emozionarsi e immergersi in un mondo che è di volta in volta favola, fiction, storia, impegno sociale, messaggio politico, denuncia, provocazione … comunque sempre una festa degli occhi.

La voglia di guardare trova oggi il suo culmine nei reality televisivi come il Grande Fratello, popolati di guitti che per un quarto d’ora di celebrità accettano di sottoporsi al giudizio del pubblico condividendo lo stesso tetto per mesi e non senza disagi e difficoltà. Consapevoli di essere osservati dalle telecamere 24 ore su 24 e aiutati da un canovaccio, improvvisano e imbastiscono scontri e incontri scomposti, gridati, sguaiati, nel segno della volgarità più becera. La volgarità che però assicura picchi d’ascolto.

 

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The Truman Show, di Peter Weir

Diverso il ruolo di Jim Carrey, protagonista di un film emblematico come The Truman Show (1998) di Peter Weir. Carrey è un ignaro giovanotto americano che vive da quando è nato in uno studio televisivo predisposto perché lui lo scambi per ambienti reali. Nel frattempo viene seguito in ogni mossa a sua completa insaputa. Persino moglie, amici e colleghi sono attori ingaggiati per l’illusorio esperimento. Un film che ieri ci ha lasciati increduli ma che col senno di poi si è rivelato profetico poiché ci stimola a riflettere sugli effetti negativi dell’incessante abbaglio mediatico cui siamo quotidianamente esposti. Un’aggressione capillare e ossessiva che non risparmia nessuno, conseguenza di tecnologie sempre più sofisticate e invasive che, se da un lato confermano l’umano ingegno e garantiscono un'indubbia comodità, dall’altro ci rendono tracciabili notte e giorno. In pratica, il progresso sta inesorabilmente riducendo gli spazi privati della nostra esistenza. Ci sta togliendo il diritto alla privacy. The Truman Show richiama almeno altri due film rilevanti: Matrix (1999), dei fratelli Wachowski, sulle arcane e insidiose possibilità degli hackers, e il recente Snowden, sui sistemi di spionaggio informatico planetario che fanno pensare a un ‘grande fratello’ elevato all’ennesima potenza, in cui non più un appartamento ma il mondo intero diventa reality, sulla spinta di un incontrollabile effetto domino scatenato da file, codici, cifrari, programmi ecc. Sono tre film che pongono inquietanti interrogativi su come distinguere il reale dal virtuale, il luogo dal non-luogo, la mente umana dalla mente artificiale, l’individuo dalla macchina.

 

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Hollywood Ending, di Woody Allen 

Ma facciamo un passo indietro. Nel film di Luis Buñuel Un chien andalou (1929) l’occhio di una donna viene tagliato orizzontalmente con un rasoio in una delle scene più famose e più raccapriccianti dell’intera storia del cinema. Un omaggio del regista spagnolo alla rivoluzione visiva surrealista, che lacera metaforicamente l’occhio dello spettatore per mostrargli, anche a costo di sofferenze, tutto quello che non ha mai voluto o osato vedere. Potrebbe aver pensato a Buñuel quel geniaccio di Woody Allen, che nel paradossale Hollywood Ending (2002) fa ricadere sulla vista il risultato della propria crisi creativa. Nel senso che nei panni di un regista improvvisamente divenuto psico-somaticamente cieco, Allen racconta come riesce a dirigere un film da non vedente, tenendo per di più il cast all’oscuro del suo handicap.

Che cosa c’è di più necessario degli occhi per un regista? Gli occhi sono il mezzo per costruire la finzione, simulare quelle realtà che non si vuole vedere ma che pure, in qualche modo, si finisce per vedere. E forse ha tenuto conto della lezione di Buñuel anche Michael Powell, regista di L’occhio che uccide (1960), dove uno spietato killer si serve del suo mestiere di fotografo per fare in modo che le vittime assistano alla loro straziante agonia vedendosi riflesse nell’obiettivo.

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L’occhio che uccide, di Michael Powell 

Il maestro giapponese Yasujiro Ozu, nel rappresentare il conflitto fra ricchezza e povertà, cerca di scovare una qualche forma di ricchezza anche nella povertà. Ozu è attento allo sguardo dello spettatore e si cura di mostrargli - attraverso i volti ravvicinati degli attori - la malinconia, la paura, la solitudine, il senso della morte incombente. Lo fa soprattutto con Viaggio a Tokyo (1953), dove due anziani partono alla volta della capitale nipponica per incontrare i figli che però non mostrano di gradire molto la visita. Il film è girato ‘ad altezza tatami’, cioè l’occhio della cinepresa rasenta il pavimento per rimarcare che la famigliola seduta a tavola è di umili origini.

In Alain Resnais l’occhio è insostituibile supporto della mente, chiamata a un esercizio di abilità: ragionare su continui andirivieni fra passato e presente, vita autentica e pregnante ricordo, storia e attualità. Gioco evidente soprattutto in Hiroshima mon amour (1959), love story in cui esperienza e memoria si alternano in un giusto equilibrio. Robert Bresson indaga poeticamente sulla fisicità dei personaggi e la funzionalità degli oggetti, avendo un occhio di riguardo per i dettagli. Il suo è un cinema di ellissi, di sincopi, di sintesi. Non ci sono lunghi discorsi, nessuna concessione alla spettacolarità. Esemplare Mouchette (1967), triste vicenda di un’adolescente stuprata che sceglie di suicidarsi lasciandosi rotolare nel fiume con apparente serenità e senza che il regista ceda a fervorini di natura morale, nonostante la sua dichiarata fede cattolica. Restiamo in Francia per accennare alla strana cinematografia dei coniugi Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. In un originale mediometraggio (ma originale è tutta la loro produzione), Non riconciliati (1965), essi ripercorrono cinquant’anni di storia tedesca eliminando ogni elemento narrativo al fine di ritornare al cinema delle origini. Quasi un rifarsi ai fratelli pionieri Lumière: una cinepresa davanti al mondo fin de siècle, uno sguardo sulle cose, il tentativo di formare una memoria collettiva per elaborare le verità della storia. Dei Lumière citiamo almeno L’arrivo del treno alla stazione di La Ciotat, ma sono in quest’ottica anche l’opera omnia di genere fantasy del cineasta e mago Georges Méliès e il proto-western La grande rapina al treno di Edwin S. Porter, in cui un baffuto bandito punta la pistola verso la cinepresa - cioè verso il pubblico - e spara. Non sono forse tentativi di scuotere, spaventare, colpire l’occhio dello spettatore e fargli credere che è tutto vero? Non sono forse confuse intuizioni del 3D nella spasmodica ricerca delle dimensioni del reale?

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Mouchette, di Robert Bresson

In La finestra sul cortile (1956) di Alfred Hitchcock il fotoreporter James Stewart, ingessato a una gamba e costretto all’immobilità, trascorre le sue giornate davanti alla finestra. La vista che si apre sulle case del vicinato gli ha infatti suggerito un passatempo: seguire col teleobiettivo le vite degli altri dentro i loro appartamenti. Ma la violazione di quelle vite private si trasforma in incubo. L’obiettivo di Stewart si sposta di finestra in finestra fino a cadere per caso sulla scena di un crimine. Ciò porterà a un finale mozzafiato, anche se mitigato dall’umorismo british del maestro del brivido: il fotografo scopre l’assassino, ma l’assassino scopre il fotografo e cerca di raggiungerlo in casa per ucciderlo. Non riesce a farlo, ma nella colluttazione l’ingenuo guardone cade dalla finestra rompendosi anche l’altra gamba! Il film è un perfetto esempio di come si possa costruire la suspense legandola al puro atto del guardare.

Al grande ‘Hitch’ si ispira il Brian De Palma di Omicidio a luci rosse (1984), che scruta dentro un lussuoso domicilio una bella dirimpettaia che ogni giorno alla stessa ora fa lo spogliarello.

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Blow Up, di Michelangelo Antonioni

La macchina fotografica è strumento ricorrente nel cinema. Vedasi anche Michelangelo Antonioni col suo Blow Up (1966). Qui un fotografo di moda crede di aver visto (e fotografato) un omicidio. Indagherà per verificare se è vero o falso e scoprirà che realtà e finzione possono confondersi e sviluppare molte facce, compresa quella di farci dubitare dell’autenticità di un’immagine impressionata su lastra. Analogamente in Sesso, bugie e videotape (1989) un giovane coltiva l’hobby particolare di registrare in video le scabrose confidenze delle donne che incontra: ancora una volta un cinema che si diverte a trasmetterci non immagini dirette ma loro sovrapposizioni.
In Fino alla fine del mondo (1992) di Wim Wenders una videocamera computerizzata trasforma in impulsi visivi gli stimoli del cervello. Ciò ridà la vista a una madre cieca che prima di morire vorrebbe rivedere i suoi cari. Li vede in effetti, ma virtualmente. Ennesima pellicola che mette sotto accusa l’abuso dell’immagine, vista come elemento distruttore di risorse umane fondamentali quali il pensiero e la parola. Ma soprattutto film che denuncia il cessato rapporto con la realtà, sempre meno reale e sempre più virtuale.

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Eyes Wide Shut, di Stanley Kubrick

Attento a suggestionare il pubblico è Quentin Tarantino, che nel sottostimato Jackie Brown (1997), gira all’interno di un centro commerciale la stessa avvincente sequenza da diverse prospettive per descrivere, oltre che ogni elemento dell’azione, anche i risvolti psicologici dei personaggi. Il rapporto sguardo-immagine è una vera ossessione per il mai abbastanza celebrato Stanley Kubrick. Il suo film-testamento Eyes Wide Shut, ‘occhi spalancati chiusi’, ci rivela come il titolo non sia poi così contraddittorio. La materia trattata è infatti il sogno: cos’è il sogno se non il luogo incontrollato del nostro subconscio, il desiderio di continuare a guardare, investigare, rivelare e svelare pur lasciandoci sprofondati nel sonno? Ma il faro del cinema di Kubrick è 2001. Odissea nello spazio (1968), opera valevole per tutte le tematiche dell’universo mondo, film artefice del nuovo modo di guardare non solo il cinema ma qualsiasi manifestazione dell’arte (e forse anche della realtà), così intenso ed efficace che lo spettatore segue quella vicenda sospesa fra scienza, fantascienza, metafisica e teologia non come una normale visione cinematografica ma come un’esperienza coinvolgente, avvolgente, sconvolgente. È un’opera proiettata nel futuro ma attraversata da venature romantiche. Un film modernissimo che esalta gli itinerari dei sensi con innovativi movimenti della cinepresa, col contrasto dei commenti musicali (si va dai nostalgici valzer di Strauss alle sonorità elettroniche di Ligeti), con riprese grandangolari e l’impiego di luci psichedeliche. Stupefacente il passaggio dalle scimmie dell’‘alba dell’uomo’ all’homo tecnologicus delle civiltà avanzate, sottolineato da una clava preistorica che si muta in navicella spaziale. Sul finale salta ogni parametro della logica umana: l’astronauta smarrito nel cosmo sbarra gli occhi davanti all’ignoto mondo in cui è stato catapultato, sforzandosi inutilmente di capire come abbia potuto compiere un simile salto nel tempo e nello spazio, che il film insegna essere una sola cosa (tema sul quale si sbizzarrisce oggi Christopher Nolan: i suoi Inception e Interstellar percorrono vie nuove dell’anima mettendole a confronto con sconosciute dimensioni cosmiche). In quell’appartamento arredato in stile Settecento, l’astronauta di 2001 si vede invecchiare a tavola e morire nel letto, ma si vede anche feto pronto a rinascere fra le stelle, forse novello messia con obiettivi salvifici. Kubrick gioca con gli sguardi anche nel raccontare lo spigoloso rapporto di odio-amore fra l’uomo e la macchina: il calcolatore di bordo Hal 9000, dotato di un occhio infallibile, legge il labiale degli astronauti e scopre che stanno tramando per disattivarlo. Da qui la sua vendetta. Da qui la paventata vittoria della macchina sull’uomo.

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Inception, di Christopher Nolan

Sul conflitto realtà-sogno si cimenta anche David Lynch con una serie di arditi film come Mulholland Drive (2001) e Enland Empire (2006), dove l’eccentrico regista esprime un singolare talento visionario: il suo cinema colpisce non solo l’occhio ma scava nell’inconscio di tutti noi nel tentativo di destabilizzare il conformismo che ci annichilisce.

L’arte cinematografica è fondata sul vouyerismo, sul mestiere di guardare. Ci siamo tuttavia attenuti al suo significato più alto tralasciando il vouyerismo terre-a-terre, cioè lo spiare dal buco della serratura. Il filone erotico, per intenderci, che peraltro vanta autori di riguardo quali il polacco Walerian Borowczyk (I racconti immorali, 1974), il giapponese Nagisa Oshima (Ecco l’impero dei sensi, 1976) e il taiwanese Ang Lee di Lussuria (2007). Alfiere del genere in Italia è Tinto Brass, cultore del piacere fisico, demolitore di tabù, guastatore della cultura ufficiale, fustigatore della falsa morale. Connotati che lo risparmiano dalla nomea di banale pornografo, anche se non riesce a distogliere la cinepresa dalle rotondità anatomiche delle numerose starlet che a lui devono qualche notorietà. Per rendersi conto di quanto Brass badi molto all’estetica delle sue opere, basta ricordare La chiave (1983), film dalla trama un po’ così: i diari segreti di due coniugi di differente età diventano fonte di rinnovata eccitazione sessuale (fece discutere la performance eccessivamente disinvolta di un’attrice pur apprezzata come Stefania Sandrelli). Ma le atmosfere rarefatte e raffinate e l’efficace ricostruzione d’una Venezia fascista fanno di questo film un cult.

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La chiave, di Tinto Brass

Ci piace concludere con una citazione di Federico Fellini che ben sintetizza quanto l’occhio sia il tramite privilegiato fra cinema e spettatore: “Io non voglio dimostrare,” diceva il regista riminese “io voglio mostrare”. Allo spettatore resta perciò il compito di utilizzare il proprio sguardo per organizzare razionalmente le immagini di un film e trasformarle in una storia da vedere.

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