L'eros

Tra Eros e Agape

Declinazini d'amore

a cura di Lorena Pini

Eros e psique
Jacques-Louis David (1748–1825)

Ognuno è tale e quale il suo amore.
Ami la terra? Sarai terra.
Ami Dio? Che dirò? Sarai Dio?
Non oso dirlo, ma ascoltiamo la Scrittura che dice:
Io ho detto: Siete dèi e figli dell'Altissimo.
(Sal 81, 6) 
(S. Agostino, In Io. Ep. tr. 2, 14).

Come ogni appassionato di filosofia sa bene, l'amore è costitutivo di tale disciplina, che, fedele all'etimologia, pone ad oggetto di questo sublime "tendere a" la stessa sophia, quella sapienza che, non prestandosi certo a facili conquiste, rende il filosofo un amante decisamente ambizioso.
Posta questa premessa, va detto che quello che chiamiamo "amore", con un nome così abusato da essere ormai logoro, ha significati che - specie nella classicità, ma anche oltre - si sono felicemente espressi in termini diversi, la cui ricchezza ci aiuta a gustare di nuovo la complessità di un'esperienza tanto preziosa.
Eros, cioè l'amore-desiderio, recita una parte da protagonista sulla scena del pensiero almeno a partire dal Simposio di Platone, il quale, per bocca di Socrate, ne traccia un ritratto spiazzante, definendolo appunto come desiderio di ciò che manca e presentandolo come un demone, figlio di Poros (ingegno) e Penìa (povertà).
L'Eros platonico è filosofo, in quanto sta tra l'ignoranza e la sapienza, non possiede Bene, Bellezza e Verità, ma vi aspira e così risale dalla bellezza di un corpo a quella di tutti i corpi, quindi a quella delle anime e infine a quella del sapere, cioè alla visione del Bello in sé.
Essendo attraversato da un desiderio infinito ed eterno, egli vuole vincere la morte non solo con la generazione, ma ancor più tramite il rapporto pedagogico, fonte di creazioni artistiche e progetti politici, cioè di figli più belli e immortali di quelli concepiti nella carne.
Questo concetto di amore, esemplare della mentalità greca, esprime l'aspirazione umana alla perfezione e quindi arricchisce l'amante conducendolo in un percorso dialettico di ascesi verso il mondo delle idee; esso corrisponde pertanto ad un moto che di fondo è egocentrico, che scaturisce dall'amore di sé e non è inteso ad un incontro con l'altro in quanto tale, ma alla ricerca del proprio vero bene, che è quello dell'anima.
Eredi di questa tradizione - e quindi rivolti, nel recupero delle nostre radici profonde, all'Atene classica - lo siamo però anche di un'altra cultura, quella ebraica, che sposta la nostra attenzione verso Gerusalemme (la terza città di questa geografia dello spirito essendo ovviamente Roma).
Cambiando scenario, muta anche lo sguardo sull'amore, che ci si presenta qui nelle vesti di amore-dono. Soggetto dell'iniziativa non è più l'uomo, ma Dio stesso, in un rovesciamento di prospettiva impensabile per un greco, se ricordiamo il concetto aristotelico di Dio come "primo motore immobile", come amato che attrae l'amante con la propria perfezione e così muove il mondo.
La distanza si può apprezzare anche confrontando il neo-platonico Plotino, che concepisce l'Uno come perfetta autosufficienza, con l'evangelista Giovanni, che ci offre la più compiuta formulazione dell'idea del Dio che si fa dono proclamando che "Dio è amore".
Per le Sacre Scritture, l'amore non è quindi un movimento ascensionale che porta l'uomo ad avvicinarsi alla perfezione, ma è frutto della libera volontà divina di intraprendere un moto discendente per prendersi cura dell'uomo, chiamato poi a una corrispondenza conforme.
Per designare questo amore, gli autori neo-testamentari sono ricorsi al termine agape, che indica uno slancio disinteressato verso gli altri, anche verso chi non ha alcun potere di attrazione e addirittura verso i nemici.
Un terzo e conclusivo movimento ci mostra come queste opposte concezioni siano state accolte, in un'ulteriore elaborazione, nella cultura medievale, e ci viene allora incontro Sant'Agostino, un uomo il cui itinerario esistenziale corrisponde a quello presentato nel Simposio e insieme uno dei filosofi più eminenti della cristianità, capace di conciliare platonismo e Vangelo.
Agostino distingue due concetti: quello di cupiditas, che esprime il desiderio per il finito, sempre inappagato, che non può condurre alla felicità ed è moralmente condannabile, e quello di charitas, che invece si configura come desiderio per Dio, bene infinito ed eterno che solo può rendere felice la creatura, corrispondendo pienamente alla sua natura.
La charitas non è però attingibile con le sole forze dell'uomo peccatore, che invano cercherebbe di salvarsi da sé, ma è possibile solo in virtù della grazia divina e perciò presenta i tratti dell'agape evangelica. Al contempo, essa conserva i caratteri dell'eros platonico: è l'amore-desiderio, che ha come oggetto il Bene assoluto, anche se l'Agostino convertito sembra ispirarsi più che al Simposio, compromesso con la sensualità, al rigoroso ascetismo del Fedone.
La charitas si rivolge alle creature in quanto, pur se in modo offuscato, queste riflettono la perfezione divina, della quale sono immagine. Solo ricordando che in esse cerchiamo e amiamo Dio, il quale – agostinianamente - è più intimo a noi di noi stessi e ci ha dato un cuore che rimane inquieto finché non trova pace in Lui, possiamo quindi coltivare un amore ordinato, autenticamente bello e capace persino di conformarci all'oggetto del nostro amore, cioè di farci essere déi.

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