La giovinezza

Qui in paese non c’è niente, nessuno

Ragazzi delle montagne, fuga e senso di vuoto

di Michela Zucca - PRIMA PARTE

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Sull'alpe da solo a 14 anni (Schweizer Illustrierte)

Quando si vive in un paese delle nostre montagne, si sa che si è obbligati a “muoversi”, specie nei piccoli centri e nella componente giovane della popolazione. Le cifre del pendolarismo lavorativo sono quantomeno preoccupanti.

 

Anche perché dopo un certo periodo in cui si fa avanti e indietro sobbarcandosi tre ore di strada al giorno, ci si trasferisce in maniera definitiva in una città grande o sempre più spesso, all’estero.

Chi rimane nei paesi, a parte poche eccezioni, si accontenta di professionalità di basso livello: microimprese di edilizia, in cui la qualificazione è limitata, ma, a fronte di esigenze di vita tutto sommato limitate, il reddito è abbastanza elevato; spesso le ragazze rimangono a casa, o fanno le pulizie, o la stagione. In molte famiglie, quelle che hanno avuto minori opportunità di confrontarsi con l’esterno, che sono poi quelle i cui membri rimangono con più facilità in paese, la tendenza ad “accontentarsi” porta ad una scarsa considerazione per lo studio, sia da parte dei genitori, che da parte dei giovani, che non si sforzano troppo per entrare in un mondo che oltre tutto li considera già inferiori.

Chi conosce i ragazzi delle valli sa che, quando arrivano alle scuole superiori, e quindi si staccano per la prima volta dal gruppo dei paesani, devono sopportare un grande sforzo di inserimento, perché in tanti casi, negli istituti delle città perialpine, sono discriminati, non sono inseriti nel circolo delle amicizie dei compagni, i quali fanno semplicemente finta che non esistano, e fanno gruppo fra loro. Ancora una volta, vengono apostrofati con appellativi come “contadino”, “montanaro”, “paesano” come sinonimo di arretrato, ignorante, rozzo.
Comunque, anche da parte di chi lavora fuori, l’attaccamento al territorio rimane alto, nei limiti del possibile però, e per motivazioni utilitaristiche: comprare casa in città è troppo caro. Così quando si torna la sera, al fine settimana, o per le vacanze, si è troppo stanchi per impegnarsi nella vita del paese, spesso si viene percepiti dagli altri come “chi se n'è andato”, quindi si preferisce rintanarsi in un rassicurante ambito familiare, che non fa nulla per spingere alla partecipazione.
Sempre più, i paesi si trasformano in quartieri dormitorio, appendici funzionali delle città, deserti, in cui ci si muove in macchina, dove la sensazione prevalente è “non c’è niente, non c’è nessuno, se ne sono andati tutti, se ne vanno tutti”: e queste sono le voci raccolte anche in paesi dove la popolazione è in crescita! D’altra parte, non è la realtà materiale ciò che conta, ma la realtà percepita, che consente di mettersi in gioco e di rischiare.

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L’abbandono mentale e la volontà di fuga

La variabile che consente la scelta fra l’abbandono e la costruzione di qualche cosa di diverso per poter sopravvivere nei paesi di origine è antropologica: passa attraverso la mentalità.
Dalla fine degli anni Cinquanta in poi si assiste, nella maggior parte degli insediamenti alpini che traggono il loro sostentamento dall’alpicoltura, al manifestarsi di veri e propri shock culturali, conseguenza dell’emigrazione massiccia (verso l’America, l’Australia, la Svizzera, il Belgio, la “città”), che acuisce i traumi psichici da spaesamento-sradicamento, che, forse, erano già in atto. L’impatto della nuova cultura industriale e metropolitana sul tessuto socio-culturale alpino assume i caratteri di un evento fortemente destabilizzante. Le comunità delle Alpi sono letteralmente colonizzate, sottoposte a processi rapidi di acculturazione, che non possono essere rielaborati e metabolizzati perché troppo rapidi. Il mutamento di valori è stato veloce e devastante. Per i giovani, si profila un orizzonte svuotato dei punti di riferimento consolidati e accettati, e la sensazione di essere subalterni nei confronti della società urbana (assolutamente accettata e condivisa da parte dei metropolitani, che non perdono occasione di far pesare una propria presunta superiorità).
Basti pensare alla percezione degli accenti: mentre le inflessioni dei dialetti di pianura sono spesso e volentieri ascoltati alla televisione nazionale, la parlata alpina non si sente mai, ed è considerata spiacevole, dura, caratteristica di persone arretrate, poco intelligenti, rozze. Ancora oggi, la parola “montanaro”, come, d’altra parte, “contadino”, è comunemente usata come insulto o in segno di scherno.
D’altra parte, gli anziani non vivono una condizione migliore: devono sopportare l’angosciante constatazione del crollo dei propri “universi di riconoscimento” consolidati, che conferivano allo stile di vita dei propri antenati un valore di verità assoluta 1.

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L'emigrante di ferro che rifiutò di morire prima di rivedere casa (Il Giornale)


Il modello di riferimento culturale, importato dall’esterno, diffuso dalla scuola di massa e dai media, mal si adatta ad un tessuto sociale frammentario, debole, privo di un’identità forte. Che spesso viene, letteralmente, fagocitato, provocando fratture non più sanabili, perché non regge il confronto e non si sa difendere.
Nessuno nega l’enorme progresso, in termini di economia, qualità della vita, livello di istruzione, salute, di cui hanno potuto beneficiare gli Alpini. Ma lo sviluppo ha portato con sé costi sociali che stanno presentando il conto: il prezzo della crescita economica è la marginalità crescente di molte zone estranee ai grandi flussi di produzione e riproduzione culturale. Il lavoro con gli animali, sporco e “puzzolente”, è precipitato al grado più basso delle desiderabilità sociale, specialmente in Italia, dove, a differenza delle altre zone alpine, il numero delle aziende agricole (che altrove si è stabilizzato) è tuttora in caduta libera e costante. Stesso discorso per la superficie agricola utilizzata: la percentuale di abbandono della terra in Italia è la più alta fra le nazioni alpine 2. Nessun giovane che nutre una qualche aspettativa sul proprio futuro sogna di portare le mucche a pascersi di erba fresca. I pochi imprenditori agricoli vanno a cercarsi la manodopera là dove possono reperirla a prezzi bassi (e quasi sempre, è straniera). Dall’altra parte, i genitori di quei ragazzi che non hanno mai raccolto una palata di letame di vacca, né mai ammazzato un pollo, loro che le bestie al pascolo le hanno portate davvero, per anni, anche se magari si lamentano per “il bosco che ritorna e fa sparire i prati”, fanno di tutto perché i loro figli non facciano quell’antico mestiere. Mostrando chiaramente come siano loro i primi a disprezzare la propria cultura di origine, e non i tanto esecrati cittadini metropolitani.

L’isolamento sociale, la mancanza di contatti col resto dei coetanei che in estate vanno in ferie, l’assenza di “divertimenti” sono fra le giustificazioni che adducono i giovani montanari per non salire più in alpe. Si resiste dove, in un modo o nell’altro, ci si è organizzati per vincere la solitudine: in Francia è intervenuto il governo, finanziando iniziative culturali e sindacati che difendono le esigenze (anche aggregative) dei lavoratori stagionali di montagna; in altri luoghi, l’alpeggio è utilizzato, oltre che per la monticazione delle bestie, per le vacanze degli abitanti del paese, che non hanno più le vacche ma si sono rimessi a posto le baite e consentono di ricreare un insediamento vitale in quota, che permette a chi lavora di non sentirsi fuori dal mondo come succede in vallate alpine come la Valtellina e la Val Chiavenna. Ma dove la struttura del lavoro affidava ad un malghese di professione la cura degli animali di tutti, la crisi è veramente profonda. Ancora una volta, il problema non è tanto economico, in quanto oggi chi si fa la stagione all’alpeggio guadagna di più di chi va negli alberghi, e, molto probabilmente, lo sforzo fisico è minore. E perfino la scarsa socialità, tanto lamentata, non so quanto sia effettivamente minore: in periodi di intenso flusso turistico, in albergo il lavoro è senza interruzioni, per mesi senza pause; anche se ci si trova in mezzo alla gente, spesso non si riesce neppure a ritagliarsi uno scampolo di tempo e di spazio per scambiare quattro chiacchiere coi colleghi. In alpe, invece, oggi nessuno è più da solo; esauriti i compiti giornalieri, i ritmi sono più lenti, e ci si può dedicare a se stessi: parlare, leggere un libro. Ma questi vantaggi, non si riesce a vederli. Questo il motivo per cui se si vuole rivalutare questo antico mestiere, bisogna riproporlo come occupazione temporanea, associata ad altre cose che procurino “più soddisfazioni” 3.
Chi non riesce a raggiungere questi “obiettivi di vita”, si sente un marginale, un escluso, un poveretto. D’altra parte, si pensa che difficilmente si potrà raggiungere una realizzazione professionale rimanendo in paese: e questa idea viene spesso confermata e ribadita anche dalla famiglia di origine, che, se nutre qualche “ambizione” sulla carriera dei figli, li spinge ad andarsene.

 

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L’abbandono è prima mentale e soltanto in un secondo tempo assume forma fisica. I giovani, specie quelli che hanno studiato, gli elementi più sensibili, la componente femminile della popolazione, ovvero i gruppi gravemente discriminati nella società tradizionale, cominciano a disprezzare la cultura di origine, paragonandola a quella della città, più libera e aperta, più attenta alle esigenze individuali, in cui le aspettative possono essere soddisfatte con meno sforzi e sacrifici. Piano piano se ne vanno: in principio solo mentalmente e poi anche fisicamente.
Dal periodo dell’esodo di massa, però, molte cose sono cambiate. Sono quasi vent’anni, ormai, che in diverse zone le Alpi, stando alle statistiche e ai numeri crudi, sono diventate un’area di immigrazione, tanto che si potrebbe credere che problemi come la carenza di strutture sociali nei comuni, il rinselvatichimento della natura in luoghi prima coltivati, o l’esodo dai villaggi e dalle valli non esistano. Del resto, il fatto che molte aree montane lamentino una densità di popolazione ormai bassissima non è sempre dovuto primariamente al calo della natalità, ma piuttosto ai vari fenomeni di abbandono in atto già da tempo. Soprattutto i giovani dotati di un titolo di studio elevato non riescono a resistere al richiamo esercitato dai grandi centri urbani, dove possono contare su migliori opportunità formative, sbocchi occupazionali più interessanti, più possibilità di realizzarsi e, non ultimo, su un ventaglio molto più ampio di proposte ricreative, di occasioni di aggregazione, di incontro e di scambio culturale.

Il vento fa il suo giro (trailer film)

È inevitabile che la prima conseguenza di questa fuga di cervelli sia il minor utilizzo delle infrastrutture degli insediamenti colpiti dall’abbandono: non ci sono più abbastanza bambini da giustificare il mantenimento dell’apertura della scuola elementare, non ci sono più clienti a sufficienza per un negozio, per la farmacia, troppo pochi utenti per l’ufficio postale, la guardia medica, gli impianti sportivi; non si trovano operai per le aziende, soci per le associazioni, i pochi rimasti sono vecchi e fanno fatica a mandare avanti le cose. A sua volta, poi, questo fenomeno rende sempre meno interessanti le località e i territori coinvolti, sia agli occhi di chi già ci abita sia di coloro che, eventualmente, potrebbero andare a stabilirsi, trascinandoli in un circolo vizioso che già da parecchio tempo avrebbe dovuto allarmare le istituzioni politiche deputate alla gestione sostenibile del territorio 4.
Questa situazione non fa che aggravare alcuni tratti caratteristici e tipici della società alpina: la frammentazione sociale, il campanilismo, le rivalità fra paesi e fra frazioni, fra famiglie, fra fazioni, fra persone, che impediscono la composizione attorno ad un problema, la costruzione di un fronte comune, la realizzazione collettiva e condivisa di un progetto. Cresce la diffidenza verso chi viene da fuori, e quindi la difficoltà di accettare aiuti, pareri, consulenze esterne. Anche in questo caso, si genera un circolo vizioso, che non fa che rafforzare l’isolamento sociale, culturale, politico, esistenziale di chi rimane nelle valli.

 

1 - Annibale Salsa, La molteplice unità delle Alpi, in AA.VV., Commissione Internazionale per la Protezione della Alpi, Secondo rapporto sullo stato delle Alpi, Edizioni Centro documentazione Alpina, Torino, 2002, p. 29
2 - Cit. p. 29
3 - Cit. p. 29
4 - Birgit Reutz-Hornmeister, Essere giovani ed invecchiare nel territorio alpino, in Commissione Internazionale per la Protezione della Alpi, Secondo rapporto sullo stato delle Alpi cit. p. 43

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