La ricchezza

Ma i soldi danno o no la felicità?

Rapide ascese e rovinose cadute

di Ivan Mambretti

Paperon de Paperoni 1280x720

I ricchi non sono mai generosi.
Se fossero generosi non sarebbero ricchi.
[Paperon De Paperoni]

«Se potessi avere mille lire al mese,
senza esagerare sarei certo di trovare
tutta la felicità.»

Questa popolarissima canzonetta degli anni Trenta ci ha illuminato su quali fossero le ambizioni della piccola borghesia italiana dell’epoca dei ‘telefoni bianchi’.

Un modesto impiego,
io non ho pretese,
voglio lavorare per potere alfin trovare
tutta la tranquillità.

Un motivo allegro che fa il paio con un film venuto da Hollywood: Se avessi un milione (1932) di Ernst Lubitsch, in cui un anziano facoltoso, ormai al tramonto dell’esistenza, prende una decisione che lascia a bocca aperta, o meglio tasche vuote, l’avido parentado: divide i suoi soldi tra alcuni estranei scelti a caso. È una delle prime importanti pellicole che descrivono un'umanità accecata dal mito della ricchezza. A trattare il tema sono da segnalare in questo periodo anche Frank Capra, che ci ha lasciato la memorabile favola natalizia La vita è meravigliosa (1946), e Billy Wilder, che con Non per soldi… ma per denaro (1966) sferza i malcostumi familiari condizionati da soli interessi materiali. Lubitsch, Capra e Wilder hanno rappresentato lungo la metà del Novecento l’«american way of life» pur essendo tutti e tre di provenienza europea.

Sono davvero tanti i film sul denaro e il business, l’affarismo e la finanza, il latrocinio e la disonestà, che cercano di spiegare come gli ingranaggi del potere economico condizionino e cambino i comportamenti umani lasciandoli in balìa di lusinghe e tentazioni, egoismo e disprezzo, intolleranza e cinismo. È un genere cinematografico che si divide in vari filoni. In primis i gangster-movies, cioè i film in cui bande rivali si ammazzano a vicenda per spartirsi bottini, zone di influenza e banche da rapinare (un cinema che racconta soprattutto l’America degli anni Venti, la Chicago del proibizionismo, i boss venuti dalla Sicilia, i ragazzini cresciuti nelle strade che imparano l’arte di arrangiarsi come quelli di origine ebraica cantati da Sergio Leone nel suo capolavoro assoluto C’era una volta in America, 1985).

Molti film sono invece leggeri e brillanti. Prendiamo Una donna in carriera di Mike Nichols, dove l'ambiziosa manager di una società borsistica newyorkese si dimostra disponibile verso la sua giovane segretaria, finta modesta in realtà risoluta a prevalere. Un’improvvisa infermità della capa (è caduta sugli sci) le offrirà l’agognata chance: prendere le redini dell’azienda... e persino sottrarle il fidanzato. Gelosie, invidie ed equivoci diventano così il condimento giusto per una sophisticated comedy aggiornata agli anni Ottanta.

Il filone più ostico è quelloche racconta le tecniche e i meccanismi che regolano il mondo delle banche e della distribuzione del denaro. Quando le trame attingono al poliziesco o al thriller il pubblico le segue facilmente e volentieri, ma se i film vogliono descrivere lo sfrenato arrivismo e i giochi speculativi, la materia si fa così complessa da sembrare concepita per addetti ai lavori.

 

Wall Street e dintorni

Il grande Gatsby, celebre romanzo di Francis Scott Fitzgerald, ha avuto varie trasposizioni cinematografiche. Le più famose sono quella del 1949 con Alan Ladd e la recente con Leonardo Di Caprio del 2013. Un aspirante scrittore lascia la provincia per raggiungere la turbolenta New York degli anni Venti in cerca dell’american dream e della love story. Il plot si dipana fra gaudenti e capricciosi nababbi pronti a ogni malvagità pur di difendere il loro status sociale. E il sogno del protagonista, che si deve misurare coi suoi mediocri natali, si trasforma in incubo. Domanda: ma i soldi sono un mezzo per ottenere qualcosa o una merce con valore in sé? La verità è che il concetto di denaro si è modificato nel tempo, specie negli ultimi anni, complici la crisi finanziaria, la volatilizzazione del contante e l’egemonia del digitale.
In Wall Street (1987) di Oliver Stone è significativala figura di Gordon Gekko, squalo dell’alta finanza, cinico modello e maestro di quella yuppitudine che considera la ricchezza uno spericolato strumento di supremazia anche a costo di bruciarsi la carriera. Stone torna sull’argomento con Wall Street - Il denaro non dorme mai(2010) mettendo a confronto l’ormai invecchiato Gekko con un giovane che vorrebbe prenderne il posto in un intreccio di guai tipici degli ambienti dove gli sciacalli la fanno da padroni.

Con l’ancor più recente The Wolf of Wall Street (2013) cambia la regia (adesso è Martin Scorsese), ma non la sostanza. Sono qui descritte le spregiudicatezze finanziare di un broker che ripercorre la parabola del successo ponendo in risalto come l’uomo, smanioso di sopraffare il prossimo, venga poi colpito dalla sua stessa vita di eccessi, da un ego smisurato, da un’audacia incontrollata. Così la rapida ascesa si muta in rovinosa caduta. Scorsese è stato in precedenza autore anche di Casinò (1995), roboante affresco sul vizio delle scommesse negli scenari scintillanti di Las Vegas, dove i soldi regolano il traffico della droga tra violenze e crimini in un contesto di esistenze dannate.

Un accenno merita il claustrofobico Americani (1992) di James Foley, che si svolge in buona parte nell'ufficio di un’agenzia immobiliare. Gli affari vanno male, così i funzionari dei piani alti (oggi chiamati ‘tagliatori di teste’, come nel film Tra le nuvole, del 2009, con George Clooney) decidonodi ridurre il personale. Facile immaginare come si avveleni il clima fra i colleghi: ciascuno cerca infatti di gabbare gli altri impegnandosi in vendite azzardate e prestazioni illecite.

Margin Call (2011) di J.C. Chandor, ambientato nel mondo dell'alta finanza, immagina funzionari di una grande banca in preda alle drammatiche ore che precedono la crisi planetaria del 2008. Quando un analista entra in possesso di informazioni che potrebbero provocare il fallimento dell'azienda, inizia una frenetica corsa contro il tempo: il conflitto fra le decisioni da prendere e gli scrupoli di ordine morale sconvolgerà la vita di quel team di investitori. Analogamente La grande scommessa (2015) di Adam McKay racconta i segnali intuiti da un gruppo di agenti di borsa prima della crisi di cui sopra. Osando scommettere contro il mercato immobiliare, realizzano profitti incredibili.

In Capitalism: A Love Story (2009) il documentarista controcorrente Michael Moore indaga sulle contraddizioni del sistema economico americano: le disparità sociali, i salari da fame, lo strapotere delle banche, la mentalità da bisca che caratterizza la borsa. Il capitalismo è peccato, afferma l’ironico Moore, proponendosi come l’antagonista ideale e ideologico del finanziere Gekko di Oliver Stone.

 

I signori della truffa e delle rapine

Giungla d’asfalto (1950) è il titolo del film di John Huston che allude ai quartieri malfamati metropolitani, dove più accanita è la lotta fra bande per impossessarsi della ricchezza. Un ex carcerato, un losco avvocato e uno strozzino che anticipa i soldi progettano un furto di gioielli. L'operazione sembra procedere per il verso giusto, ma l’imprevisto rovinerà tutto. Romantico il finale col personaggio tutto sommato innocente che corre a morire dissanguato nei prati del natio Kentucky circondato da cavalli bianchi. In un piccolo ruolo da pupa del gangster si fa notare un’attricetta destinata a entrare nella leggenda: Marilyn Monroe.

Anche in Rapina a mano armata (1956) di Stanley Kubrick, parabola sulla sconfitta dell’avidità, il protagonista è un avanzo di galera che sta organizzando un colpo in un ippodromo. I suoi complici sono uno strano campionario di umanità: un poliziotto indebitato, un barista con la moglie malata, un allibratore alcolizzato e un cassiere dell'ippodromo stesso. Grottesco il finale. Mentre i rapinatori si avviano verso l’aereo che li porterà in salvo, la valigia col malloppo si rovescia e lo spostamento d’aria provocato dall’elica disperde le banconote. Finale vagamente simile a quello di Rififi (1955), noir di Jules Dassin, che successivamente arruolerà un cast internazionale per l’adattamento cinematografico del romanzo di Eric Ambler Topkapi (1964): una gang piuttosto raffazzonata vuole mettere a segno il furto di un prezioso pugnale nel famoso museo di Istanbul, ma gli equivoci (anche linguistici) si accavallano, i furfanti vengano scambiati per terroristi e il loro piano salta. Un altro museo, stavolta nientemeno che il Louvres, è la scena d’un tentato furto in Come rubare un milione di dollari e vivere felici (1966) di William Wyler, con Audrey Hepburn sofisticatissima ladra che vorrebbe trafugare una Venere del Cellini. Peccato che la statua sia un falso e il complice... un detective!

Sidney Lumet, in Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), racconta di due maldestri rapitori reduci del Vietnam asserragliati nella banca con gli ostaggi. L’edificio circondato dai poliziotti, dai giornalisti e dalla folla dei curiosi quasi trasforma il film in un saggio di psicologia ispirato alla sindrome di Stoccolma: il pubblico infatti finisce col parteggiare per quei maldestri delinquenti. È a suo modo anche una pellicola profetica: i media scoprono il loro potere di fare spettacolo creando eroi fasulli e non è un caso che lo stesso Lumet giri subito dopo Quinto potere, dramma sugli effetti ipnotici della televisione.

I film sulle truffe hanno sempre goduto di un fascino speciale. Colpi di scena, suspense, ingegnosi divertissement, bulli e bambole, facce da schiaffi, assi nella manica. Insomma, ingredienti di cui si sono serviti i più diversi registi rendendo i malfattori figure persino amabili (come amabile fu Charlot, vagabondo per antonomasia). Alle comiche del muto si richiama ad esempio Questo pazzo pazzo, pazzo pazzo mondo (1964) di un insolitamente scanzonato Stanley Kramer. Qui un gangster in fin di vita confessa di aver sepolto una somma enorme in un luogo segreto. Inizia allora la caccia al tesoro in un’atmosfera di chiassosa bagarre, goffi inseguimenti e sorprese spettacolari, proprie dello slapstick (il film recupera persino una gloria del muto come Buster Keaton).

Di questo ricco filone ci sembrano emblematici almeno altri tre film: La stangata (1973) di George Roy Hill, Prova a prendermi (2001) di Steven Spielberg e American Hustle (2013) di David O. Russell. In La stangata, film dalla sceneggiatura scoppiettante e sottolineato dalle musiche del re del ragtime Scott Joplin, un giocatore ha perso tutto quello che era riuscito a spillare a un'organizzazione criminale. Alleatosi con un degno compare, architetta con lui un colpaccio tutto da ridere (Paul Newman e Robert Redford, coppia affiatatissima, erano già state simpatiche canaglie nel western Butch Cassidy, 1969, sempre di Roy Hill).

In Prova a prendermi uno Spielberg minore (poco a suo agio nel registro della commedia), racconta di un tipico ragazzo americano di buona famiglia degli anni Sessanta costretto ad andarsene da casa per sopraggiunta crisi familiare e finanziaria. Per sbarcare il lunario il giovane si procura una divisa da pilota d’aereo e falsifica gli assegni della compagnia cambiando più volte identità. Assai meglio congegnato è American Hustle, dove due amanti se la devono vedere con un agente FBI, che per coprirli chiede in cambio di essere aiutato a incastrare un politico corrotto. Molto gustosi il continuo mutare delle circostanze, il susseguirsi dei malintesi, le situazioni imbarazzanti che coinvolgono tipi sospetti e fanno scoprire altarini. Russell dirige un cast azzeccato, convinto del proprio ruolo, abilmente impegnato a dare alla storia il sapore della parodia e il tocco dell’originalità.

In Tutti i soldi del mondo (2018) il consumato regista Ridley Scott, basandosi sulla storia vera del rapimento di Paul Getti III, rampollo della famosa dinastia di magnati USA, crea un racconto lungo ma senza tempi morti, che si segue volentieri anche se porta i segni della tipica americanata. Il messaggio è comunque efficace: ingenti somme di denaro non equivalgono all'abbondanza e non tutto è possibile comprare. I soldi, dunque, come paradossale rappresentazione di qualcosa che si potrebbe non avere. Cruda la figura del nonno 'paperone' che non vuole cedere nemmeno quando i sequestratori gli fanno recapitare l’orecchio reciso dello sventurato nipote.

In Time (2012) è un anomalo fantasy diretto da Andrew Niccol che preconizza un futuro senza più denaro nemmeno in forma digitalizzata. Uno scenario tutto nuovo che inverte il detto 'il tempo è denaro' mutandolo in 'il denaro è il tempo'. La vita che a ciascuno rimane da vivere è incisa a mo’ di datario sulle braccia degli uomini. Il tempo si può rubare al prossimo per allungare la propria vita. Va da sé che i nuovi ricchi sono coloro che ne accumulano di più ai danni degli altri, che diventano sempre più poveri. Finito il tempo, ovviamente si muore. Che sia, questa, l’estrema frontiera del capitalismo?

 

Italiani poveri e cialtroni

Miseria e nobiltà (1954), che Mario Mattoli riprende dalla farsa di Edoardo Scarpetta, è una commedia degli equivoci dove alcuni poveracci devono fingersi ricchi per una questione familiare alla quale sono per altro estranei. Chi non ricorda Totò in piedi al tavolo che mangia e intasca spaghetti ballando? Lo stesso Totò fa parte con Peppino De Filippo e Giacomo Furia di La banda degli onesti (1956), che falsifica denaro ottenuto da filigrana trafugata e dipinto da un pittore da strapazzo. Anche qui c’è una scena madre: i ladri che nel loro rifugio appendono con le mollette le banconote… fuori corso. Morale vuole però che gli onesti non sappiano fare i disonesti e così finiscono alle prese con debiti, cambiali, sfratti, secondo i crismi del cinema leggero di Camillo Mastrocinque. Non va dimenticato che corrono gli anni del dopoguerra nell’Italia della ricostruzione, con la fame da debellare e la lotta contro un destino che ancora pretende di farci accettare tribolazioni e precarietà a fronte di poche soddisfazioni. Per fortuna, di soddisfazioni, ce ne sono di fondamentali: gli affetti, la solidarietà, la speranza.

Il tema delle banconote false ci induce ad aprire una parentesi francese: L’argent (1983), dove il maestro Robert Bresson ci racconta di un pusillanime che vuole rifilare 500 franchi a un operaio creando un effetto domino culminato nel crimine. Bresson, nell’esprimere il suo sconforto per un mondo scristianizzato e schiavo solo del dio denaro, teorizza l’ineluttabilità del male.

Torniamo alla commedia all’italiana con un classico,I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, dove un gruppo di stralunati e squattrinati perdigiorno hanno l’occasione per portare a termine un colpo facile: scassinare una cassaforte che si trova al di là del muro che divide un'abitazione privata dal monte dei pegni. La banda prepara tutto scientificamente, o almeno così sembra. Allo scattare dell’ora x, eccoli agire, aprire porte, sfondare pareti. Ma anziché ritrovarsi nell’appartamento da svaligiare, finiscono in una cucina. Nel frigorifero c'è una pentola di pasta e fagioli. Si siedono a tavola felici e contenti: almeno per quella sera, la cena è assicurata!

A Monicelli si ispirerà un paio d’anni più tardi il clan Sinatra con Colpo grosso, di Lewis Milestone, in cui un gruppo di affabili manigoldi organizza in contemporanea una rapina in cinque casinò di Las Vegas. Naturalmente anche qui, come da antico copione, il bottino va in fumo (il film con Sinatra & Co. sarà ripreso, riveduto e corretto, a inizio millennio nella serie Ocean’s eleven diretta da Steven Soderbergh).

Chiudiamo citando un’operina di nicchia firmata da Daniele Vicari: Il passato è una terra straniera (2008). Ricavato da un romanzo di Gianrico Carofiglio e ambientato nella Bari odierna, tratteggia la figura del bravo ragazzo che ogni famiglia borghese vorrebbe avere. Frequenta l'università con profitto e ha un avvenire sicuro. Le cose cambiano quando entra in contatto con un coetaneo di tutt’altra pasta, un giocatore d’azzardo con vocazione a barare. Diventano così compagni di vizio e perdono il gusto per le cose belle della vita. Un film che sembra volersi rifare a un vecchio detto: l’occasione fa l’uomo ladro.

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