Storie di sport al femminile

Martina Navratilova, Josefa Idem, Wilma Rudolph

di Franco Ferramini

wilma rudolph podio

Wilma Rudolph

Essere donna nello sport significa definire e accettare che, fisicamente, esiste un’inevitabile differenza di prestazioni tra i due sessi, a vantaggio dell’uomo.

Quando non ci sono il doping o altre forme di furbizia, lo sport è inesorabile nei suoi verdetti: se la testa guida nel modo giusto un fisico più forte e resistente, allora si vince. Alcune peculiarità però caratterizzano in genere la prestazione sportiva delle donne: la flessibilità, la grazia e l’agilità, per esempio, sono alcune di queste. Queste doti hanno inoltre la possibilità di essere trasferite dal fisico alla mente. Perché spesso per una donna diventa difficile affermarsi anche nello sport, così come accade nel resto della sua vita; in quei casi, dei doni che la natura regala alla donna più che all’uomo, ce n’è bisogno in quantità perché le donne devono proprio impegnarsi per sfruttarli al massimo.

 

Martina Navratilova

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Solo per amore per lo sport e voglia di riscatto, ad esempio, è possibile vedere delle atlete intubate completamente in indumenti sportivi particolari per motivi religiosi, e ovviamente così svantaggiate, gareggiare con passione pur sapendo di non arrivare tra le prime.
Esistono grandi storie di sport al femminile, ci sono donne nello sport che hanno segnato con la propria determinazione percorsi di vita assolutamente ineguagliabili, fatti anche di scelte non proprio convenzionali. Martina Navratilova è una di queste. Nata a Praga, Repubblica Ceca, ex Cecoslovacchia, il 18 ottobre 1956. La madre Jana, maestra di sci, le instillò un grande amore per la montagna, ma è della terra rossa dei campi da tennis che questa bambina s’innamorò.
La nonna materna aveva fatto parte della nazionale cecoslovacca di tennis negli anni antecedenti alla Seconda Guerra Mondiale, un ramo femminile della famiglia fatto di atlete. Nasce così una delle più grandi tenniste della storia. «Un giorno vincerai Wimbledon», gli ripeteva il suo primo maestro Mirek Navratil, negli interi pomeriggi passati dalla piccola a palleggiare contro il muro di casa con l’antica racchetta di legno della nonna. Poi, a soli nove anni, la decisione di diventare una tennista professionista. Una vera scommessa sua e dei suoi famigliari.
Ma arrivarono tempi difficili per la Cecoslovacchia. Dopo la speranza della «Primavera di Praga» del presidente Alexander Dubceck nel 1968, arrivarono anni di difficoltà economica per quel paese. Da qui la decisione di emigrare negli Stati Uniti. Esistono altre storie di atleti che, in quel periodo, decidono di lasciare i Paesi dell’Est Europa; figure sociali in qualche modo privilegiate di certo, ma questo fa parte della storia.

Nel 1975 la famiglia ottiene la Green Card e il permesso di soggiorno negli Stati Uniti. I primi anni negli USA non furono facili, il giornalista Bud Collins coniò per lei il soprannome «Great Wide Hope» (Grande Larga Speranza) per ironizzare sulla sua taglia fisica, sovrappeso a causa di abitudini alimentari sbagliate per un'atleta professionista. La stella tennistica di Martina brillava però sempre di più, fino all’avveramento della profezia: l’8 luglio 1978 infatti vinse proprio a Wimbledon. Il suo era diventato un fisico forte, legnoso, con una caratteristica di gioco quasi mascolina, e i tratti del viso non erano proprio nei canoni della bellezza femminile.

In quegli anni Martina fece una delle sue scelte coraggiose: dichiarò la propria bisessualità, vi lascio immaginare le sponsorizzazioni perdute come conseguenza e l’ostilità di un mondo sportivo non abituato, e ancora non pronto, a dichiarazioni-shock di questo tipo. Come per incanto, in una di quelle strane storie che circondano il mondo, essere 'contro' produsse in Martina effetti sempre più prodigiosi, macinò vittorie su vittorie finché diventò una delle tenniste più titolate, forse la più vincente tra le tenniste della storia. Storica la sua rivalità con Chris Evert. Suoi i record assoluti di titoli vinti (167 nel singolo, 177 nel doppio), fino a farla diventare la più anziana vincitrice di un titolo WTA (Women’s Tennis Association): celebre la sua frase per quell’occasione. «La palla non sa che ho quarantacinque anni». A meno di due mesi dal compimento dei cinquant’anni, l’ultimo titolo del Grande Slam agli US Open. Una longevità agonistica niente male per chi ironizzava su quella grande, 'larga', promessa del tennis.

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Julia Lemigova e Martina Navratilova

Dal ritiro agonistico in poi, Martina si impegnò in varie campagne a favore degli animali, bambini poveri, diritti dei gay. Ha pubblicato un libro, lei ne sa qualcosa, su come cambiare il proprio stile di vita fisico-alimentare. Fino alla battaglia vinta, solitamente e a ragione si dice, la più importante di tutte, quella contro un tumore al seno nel 2010.
La Navratilova si sposò finalmente nel 2014. Il suo matrimonio con la bellissima Julia Lemigova, ultima miss Unione Sovietica nel 1991, più giovane di 16 anni, assurse ancora una volta agli onori delle cronache di tutto il mondo, con la sua spettacolare dichiarazione in video diffusa in tutto il pianeta. Fregarsene del giudizio della gente, certo, a volte può essere anche facile per una campionessa dello sport probabilmente ultra-miliardaria, i simboli però servono, sono molto utili per migliorare questo nostro mondo sempre più difficile, che da un lato è costantemente connesso, dall’altro invece può diffondere con rapidità estrema anche la negatività del pettegolezzo e del pregiudizio.

 

Josefa Idem

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Josefa Idem

Si può essere nello stesso tempo campionessa olimpica, partecipare a otto olimpiadi, detenere quindi il primato mondiale femminile di partecipazione ai Giochi Olimpici, cambiare vita e nazionalità, sposarsi ed essere madre di due figli, partecipare attivamente alla vita sociale e politica del proprio nuovo paese fino a diventarne senatrice e Ministro della Repubblica? Josefa Idem ci è riuscita.
Nata a Goch, in Germania, nel 1964, fa della canoa la sua specialità sportiva. Josef Capousek, il suo primo allenatore tedesco, dopo la sconfitta alle olimpiadi di Seul nel 1988, disse di lei nelle interviste del dopogara: «La Idem non ha forza mentale. Ormai è troppo vecchia per vincere». La Idem allora aveva 24 anni, un giudizio pubblico di quel tipo del proprio allenatore ebbe veramente il sapore di quello che lei stessa definisce «Il Giudizio Finale».
Per arrivare a meritarsi quell’odiosa sentenza da parte del proprio allenatore Josefa ci aveva messo solo impegno, fatica, da quel lontano maggio 1976 in cui salì sulla canoa per la prima volta. Difficile il contatto in acqua con un oggetto galleggiante che non ne vuole sapere di rimanere a filo di superficie da solo; quella barca bisogna sentirla, indossarla come una seconda pelle, perché prova le tue sensazioni, le tue paure, le tue indecisioni. Appena sbagli finisci in acqua, e quante volte ai primi approcci Josefa assaggiò l’umiliazione di bagnarsi, nel suo primo campo di allenamento, il canale delle chiatte di carbone che attraversa Hamm, il KV 45 Herringen, in una frazione del capoluogo di provincia, in Germania, che allora era seguito ancora dal termine 'Ovest'.

Così decisero di fare gareggiare la piccola Josefa senza sedile, col sedere sul fondo del kayak, per farle guadagnare più stabilità, a dispetto però di spinta di gambe e aggancio in acqua. Quando le vicine di corsia le chiesero «Ma tu gareggi senza sedile?», lei rispose «Ma va! Sono solo piccola». In realtà Josefa era forse sì un po’ piccola, ma soprattutto era lenta. A fine gara poco mancava che la raggiungessero le ragazze della successiva batteria.
Ma quella bambina tedesca non ci stette. Non si rassegnò, non gli piacque farsi prendere in giro dalle altre bambine nei giochi nell’acqua che intervallano gli allenamenti di quei tempi. Imparò presto che per praticare quello sport erano a lei necessarie due cose: la sensazione della «barca che scorre bene» e la voglia e la concentrazione per sgobbare e fare fatica. Penso che quella sensazione sia uno stato d’animo che, al di là del mezzo tecnico usato, sia esso una canoa, una bicicletta, sci, un'asta per saltare o un paio di scarpe da running, credo che quella condizione si possa riassumere in tutti gli sport come uno stato di grazia in cui tutto fila liscio: fisico, mondo esterno e mente. Quando nella fatica si capisce che muscoli, cervello, condizioni climatiche e paesaggio insieme, tutto ti aiuta, quando ogni cosa è ok, e nel tuo gesto atletico sei in armonia col creato.

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Guglielmo Guerrini, allenatore e marito di Josefa Idem

Da quel 1976 Josefa arrivò alla prima partecipazione olimpica, nel 1984 a Los Angeles. E fu subito argento, in coppia con la sua più esperta compagna di K2 500 Barbara Schuttpelz. Un secondo posto sul podio ancora pienamente tedesco. La sensazione per Josefa che «il mondo intero si mise a farle festa». Nacque una stella, una campionessa che non aveva nulla di predestinato come altre atlete della storia, fenomeni sin da bambini. Per lei tutto si è costruito con fatica, determinazione e intelligenza: quest’ultima dote per fare bene nello sport, in certi sport, è importantissima.

Josefa è intelligente, le piace molto leggere e scrivere, parla fluentemente quattro lingue, ma è anche modesta. Non 'se la tira', non lo farà mai. Le Olimpiadi di Seul per lei però non vanno molto bene. Nelle gare a cui partecipò occupò tutte ultime posizioni, furono delusioni continue. Con l’allenatore, con quel clima che si respirava nell’ambito della nazionale tedesca di canoa, Josefa non era più in sintonia.
In quegli anni avvenne l’incontro e l’inizio di una relazione con un allenatore italiano, Guglielmo Guerrini, romagnolo di qualche anno più anziano di lei. Un amore, un vero amore, di quelli che ti fanno cambiare casa, ambiente, nazione. Di quelli che ti fanno cambiare vita. Josefa si trasferì con lui a Santerno, provincia di Ravenna. Qualcosa cambiò, finalmente gli allenamenti diventarono esperienze condivise: durissimi, faticosi sempre, ma la testa era un’altra. Tutto diventò più leggero (si fa per dire), Josefa cominciò a sentirsi una persona, una donna, non una giovane ragazza cui venivano continuamente tarpate le ali.

Nel 1989 Guerrini diventò ufficialmente allenatore della Idem, nel 1990 si sposarono, e lei acquisì la nazionalità italiana. Poteva gareggiare ufficialmente per la nostra Nazionale. Olimpiadi di Barcellona 1992, quelle dell’inno del grande Freddy Mercury, terza partecipazione dell’ormai nostra canoista, la delusione peggiore per un atleta olimpico: fu un quarto posto, 'medaglia di legno'. Ma una delle doti maggiori per uno sportivo è quella di trarre insegnamenti preziosi dalle sconfitte: questa è una caratteristica che ha proprio Josefa Idem.
La coppia ricominciò a progettare in positivo. Nel racconto è necessario saltare volutamente europei e mondiali, che sono comunque medaglie, per concentrarsi sulle otto Olimpiadi. Lo spazio di un articolo è 'tiranno'. Ma non si può non rilevare che nel 1995 nacque Janek, il primo figlio, evento che poteva stravolgerle la vita. Josefa si organizzò, voleva fare la madre e l’atleta professionista insieme.
Atlanta 1996, per molti sono le Olimpiadi del business. Scegliere come sede del centenario la città della bibita più famosa del mondo, invece di Atene, non fu proprio una decisione ispirata da puro spirito olimpico. In quell’occasione, il bronzo fu per lei la prima medaglia olimpica italiana.
Tra un’olimpiade e l’altra ci sono quattro anni, che non sono pochi. In quel lasso di tempo per una vita normale possono accadere moltissimi eventi, per un'atleta professionista può essere un’eternità. Sidney 2000 fu la quinta olimpiade per Josefa, trentasei anni di età. Finalmente l’oro olimpico, in una finale disputata in un clima da tregenda, vento fortissimo in cui era difficile non ribaltare la canoa perfino stando ferme. Una finale disputata a tutti i costi perché la sera ci sarebbe stata la cerimonia di chiusura e dopo quell’evento non si potevano più programmare gare. Josefa fu la più forte, per sempre nella gloria di Olimpia.

JOSEFA IDEM 1280 PDNel 2001 iniziò la carriera politica, presso il consiglio comunale di Ravenna. Nel 2002 nacque il secondo figlio, Jonas. Nel frattempo partecipò ai campionati mondiali e continuò a impegnarsi politicamente. Gestire le energie diventò fondamentale, nella vita reale non esistono 'Wonder Woman', però con Josefa Idem ci siamo andati molto vicini. Tanto per non farsi mancare niente, ricevette qualche accusa ingiusta per doping e collaborazioni con quotidiani sportivi di diffusione nazionale. Che altro? Pensare alla sesta olimpiade, Atene 2004. Alla fine di queste, lei scriverà nel suo libro autobiografico. Partiamo dalla fine: «Chiudo quattro anni meravigliosi, quarant’anni meravigliosi, con un podio in cui non credevo nemmeno. Non si può chiedere di più. Se ora smetto, lo faccio pure con un bel risultato. E questa è una vera fortuna».

Ma Josefa non smise proprio per niente. Fino ad arrivare all’altra finale, olimpiadi di Pechino 2008, un argento per soli quattro millesimi di secondo dalla prima. Scoprì più tardi col figlio Janek su internet che quella frazione infinitesima di tempo equivale al battito d’ali di una zanzara. Per sbattere le ciglia un uomo ci mette cento volte di più. Per una gara di canoa sui 500 m ci vuole trentamila volte quel tempo. Pazzesco.
Passarono altri quattro anni, dai 44 ai 48, da atleta più che matura. Allenamenti, competizioni infinite fino all’obiettivo di Londra 2012, ultima gara, ottava olimpiade cui partecipò. Un quarto posto per tre decimi di secondo. Josefa Idem smise definitivamente.

Ma accadde ancora qualcosa di molto importante nella sua vita. Nel 2013 fu chiamata a fare il ministro della Repubblica. Una vicenda che fu cronaca sociale e politica. Un’inezia fiscale la costrinse in poco tempo alle dimissioni. È inutile sindacare sulla sua colpevolezza, in queste situazioni per una Donna con la 'D' maiuscola, per un'atleta col grande carattere di Josefa è un attimo diventare un facile boccone per gli spietati squali della politica ad alto livello.
Nello sport esiste un parametro infallibile: o vinci, o perdi, ma anche se ne esci sconfitto, puoi girare a testa alta. In politica rischi il massacro psico-fisico, la gogna mediatica senza appello; vedi magari gente fortemente disonesta che rimane a galla, e invece il mondo intero ti attacca per un cavillo, un puntino impercettibile, quasi nulla. Tutto questo fu troppo per Josefa, lei era abituata a lavorare sodo, per far quadrare tutto nella sua vita. 57 giorni da ministra, poi le dimissioni. Scriverà ancora nel suo libro a proposito di quei giorni: «I miei cinquantasette giorni da ministra sono stati paragonabili a una cavalcata su uno di quei tori meccanici che ci sono nei luna park, il cui unico scopo è farti perdere l’equilibrio, buttarti giù…».

Dell’atleta Josefa Idem rimane il primato mondiale di partecipazioni olimpiche e trentotto medaglie tra Olimpiadi, Mondiali ed Europei. Della donna Josefa Idem c’è lei, semplicemente incomparabile. Unica, come la storia di un’altra atleta, di un’altra specialità, di un altro tempo, di diverso colore di pelle. Donna però, grande donna anche lei. La storia di un mito dell’atletica leggera, una velocista...

 

Wilma Rudolph

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Wilma Rudolph

Nacque il 23 giugno 1940 nel Tennessee, a Clarksville, più precisamente a Saint Bethlehem, una piccola frazione fatta di strade polverose e povere case di legno brulicanti di bambini neri di tutte le età. Il suo nome e cognome, Wilma Rudolph. Ventesima figlia di ventidue in totale, il padre facchino, la madre donna di servizio, una fatica enorme per mettere insieme pranzo e cena per tutte quelle bocche da sfamare. La piccola Wilma nacque già sottopeso, fu molto cagionevole di salute collezionando una serie infinita di malattie, fino ai quattro anni e a quel verdetto senza appello: poliomielite, con la sentenza del medico: «Non camminerà più».
Poi, l’incontro con un medico nero, il dottor Coleman, un angelo: confermò anche lui l’assoluta gravità della malattia ma prescrisse esercizi e massaggi per quella gamba malata, massaggi continui, quasi senza sosta. Si pose il problema di come farli, il padre e la madre dovevano passare le loro giornate al lavoro. La famiglia era numerosissima, ecco come fare di un problema la soluzione: a turno, tutti i fratelli impararono a educare la gamba malata di Wilma e a rotazione gli diedero sostegno, in un continuo inseguire il sogno di guarigione. Lunghi anni di successi e insuccessi.
I bambini spesso tra di loro sono tremendi, ed escludevano spesso quella bimba storpia dai loro giochi, dalle loro corse. Wilma però non solo voleva camminare, Wilma sognava di correre. Otto lunghi anni, nella vita di un bambino sono un’eternità. Poi, a dodici anni, il miracolo. La Rudolph gradualmente guarì. Un evento quasi impossibile, reso possibile da una serie di persone e di eventi fortunati sì, ma soprattutto dalla voglia di non arrendersi. Wilma iniziò a giocare a basket, non male per chi otto anni prima ricevette una sentenza di disabilità a vita. Ed era forte, maledettamente forte, la sua squadra vinceva grazie a lei.

Ma nella mente di quella bambina c’era la corsa, forse per correre lontano dalla miseria, dalla malattia, dalla segregazione razziale che in quei tempi, non dimentichiamolo, in America, era diffusa ovunque in modo capillare con leggi 'ad hoc'. Fu scoperta come velocista, a sedici anni era già alle Olimpiadi, frazionista della staffetta della nazionale USA. Un podio, medaglia di bronzo, il mondo si accorse di lei. Olimpiadi di Roma 1960, qualcuno dice ancora le più belle Olimpiadi dell’era moderna, senza voler essere troppo nazionalisti. Una gazzella nera volò sulle piste, il suo incedere era molto armonioso, aggraziato, efficiente e potentissimo: bellissima, in tutti i sensi. Gambe lunghissime, all’arrivo non festeggiò quasi neanche. Ma vinse, vinse tutto. Medaglia d’oro nei 100 metri, nei 200, nella staffetta 4 x 100. Tre medaglie d’oro per cancellare la sua infanzia, la sua gioventù, per cancellare il verdetto senza appello di quel medico. In Italia fu la «Gazzella nera» o la «Regina di Roma», a scelta. In Francia la «Perla nera». In patria, negli Usa, «il tornado del Tennessee».
francobollo wilma rudolphIl ritorno a casa fu da vera e propria eroina, la realizzazione di un sogno, una favola moderna. Una storia sportiva ad alto livello che si esaurì però lì, nello spazio di un'Olimpiade, a vent’anni, a palese differenza delle storie sportive raccontate più sopra. Divenne madre di tre figli, allenatrice, insegnante. Fu purtroppo meravigliosa meteora anche nella vita, scomparì purtroppo prematuramente per un tumore al cervello nel 1994, a 54 anni.

Non sempre è facile per le donne affermarsi nello sport. Spesso fino a qualche anno fa il genere femminile ha dovuto combattere anche contro pregiudizi e la poca sensibilità della gente. È un attimo identificare la grande atleta come una donna di facili costumi se nella sua vita privata sono effettuate scelte non tradizionali. Spesso è sufficiente che si presti a qualche pubblicità di troppo, o magari si impegni nel sociale per qualche campagna a difesa di qualche diritto boicottato. La frase «Ma cosa si mette a fare quella lì…» è dietro l’angolo di ogni cammino di vita intrapreso da donne al di fuori dei propri specifici percorsi sportivi. Come ho scritto all’inizio, in alcuni paesi o situazioni sociali il solo fatto che una donna si dedichi allo sport può essere già eversivo di per sé. È per tutto ciò che i trionfi sportivi delle donne quasi sempre assumono una valenza diversa, più esaltante. Hanno la dimensione di veri e propri sogni tramutati in realtà, sogni sognati quasi con ossessione, sfociati in meravigliose storie di sport al femminile nella vita di tutti i giorni. L’emancipazione femminile è passata anche dallo sport ma ancora lunga è la strada da percorrere, un cammino altalenante tra trionfi e disfatte. La società a volte fa di tutto perché lo sport non sia per la donna, è la donna che deve spesso conquistare lo sport. Ma quando ci riesce, non ce n’è per nessuno, si annullano i dislivelli di genere. Sono sempre però, differenti dagli uomini.

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